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L'ABITO FA IL MONACO?

a cura di Giovanni Pelosini
 

Luca Cavalli-Sforza, professore emerito dell’Università di Stanford, California, ha compiuto proprio in questi giorni novantaquattro anni: anziano e lucidissimo Acquario con Sole trigono a Saturno in Bilancia (Genova, 25 gennaio 1922), illustre genetista di fama mondiale, specializzato in antropologia e nella storia delle popolazioni umane.

Cavalli-Sforza, nella sua analisi del DNA della nostra specie, ha da tempo stabilito che esiste un’unica “razza” umana.
Un davvero esiguo numero di geni, infatti, è responsabile del colore della pelle, determinando semplicemente la quantità di molecole di melatonina, il pigmento nero che si accumula nella nostra epidermide. Mentre le altre differenze genetiche che distinguono il DNA di un africano da quello di un asiatico o di un europeo sono davvero troppo poche perché si possa parlare di “razze” distinte nell’Homo sapiens.
Eppure ricordo perfettamente la frase che io e mia moglie sentimmo pronunciare da un gentile poliziotto al suo collega appena sbarcammo per la prima volta all’aeroporto di New York, un po’ disorientati: “Help these two italians!” (Aiuta questi due italiani!).

Stavamo solo cercando il cartello indicante l’uscita, e non stavamo parlando, quindi non possono aver identificato la nostra nazionalità dalla lingua, né certamente lo avrebbero potuto fare dai tratti somatici. Nemmeno il nostro comportamento nazionale, spesso caratterizzato da un tipico “gesticolare” poteva averci tradito, poiché stavamo semplicemente spingendo il carrello dei bagagli e guardando le indicazioni.
L’unica cosa che poteva aver manifestato il nostro indubbio essere italiani poteva essere stato il nostro abbigliamento.

Se i popoli hanno pochissime differenze genetiche o biologiche, certamente mostrano grandi capacità di differenziarsi dal punto di vista etnico, cioè nelle loro usanze, pensieri, lingue, abitudini, credenze, modi di essere, e ovviamente di vestire.
La globalizzazione ha imposto indubbiamente modelli dominanti ben riconoscibili di abbigliamento occidentale, ormai diffusi in tutto il mondo, ma la natura di ogni essere umano, e di ogni etnia, rende ancora assai spesso gli individui ontologicamente riconoscibili dal modo di vestirsi.
Dal punto di vista sociologico e antropologico questo fatto assume una certa importanza come fenomeno collettivo in ordine all’appartenenza culturale più che alla semplice moda.

La moda, infatti, è un fenomeno soprattutto (ma non solo) moderno e occidentale, che talvolta rende distinguibili gli appartenenti a specifici gruppi. Si pensi agli hippy, ai metallari, ai paninari, ai dark… ovvero a chi, negli anni ’70 preferiva il loden all’eskimo, o viceversa, in chiave proprio di appartenenza sociale o politica. La distinzione sociale dei gusti è stata oggetto di molti studi di sociologia, poiché l’immagine, l’apparenza, il senso ottico che diamo di noi stessi assumono sempre più la natura critica di chi siamo o desideriamo essere. Per questo la moda è associata al cambiamento nella società ed è strumento di riconoscimento individuale e sociale.
In questo senso, nel secolo scorso, la lunghezza delle gonne femminili è stata uno dei principali paradigmi socio-culturali del mondo occidentale.

Ma il fenomeno è molto più antico, e concorre alla storia antropologica di ogni continente: penso che raramente siano stati i gusti a determinare la distinzione, ma che più spesso sia stata proprio la necessità di distinguersi che ha determinato il gusto. Anche all’interno delle singole etnie, l’abito caratterizza da sempre i ruoli sociali, la professione, il ceto, se non la casta.
In molte culture che ancora sopravvivono alla globalizzazione l’abbigliamento caratterizza e distingue, per esempio, lo stato di nubile, sposata, vedova per le donne. Per gli uomini invece nell’antica cultura scozzese ogni clan mantiene gelosamente i propri colori distintivi, e specifici kilt. Oggi come migliaia di anni fa colori, forme, acconciature, copricapi, vesti, distintivi rendono riconoscibile agli altri l’individuale appartenenza a specifici gruppi professionali, sociali o etnici.

Nel complesso e difficile mondo globalizzato e multiculturale di oggi si notano da un lato la spinta a integrarsi, uniformando il modo di essere e abbigliarsi, da un altro il desiderio di mostrare diversità, con un’accentuazione di questa antica e funzionale tendenza. Nel primo caso gli individui si sentiranno membri del “villaggio globale”; nel secondo si identificano con gruppi locali o con minoranze diffuse.
In tutti i casi è in gioco l’identità, e gli strumenti come l’abbigliamento sono i simboli di tale identità.

Il contrasto di questa epoca è forte e complesso: in parte l’identità è imposta agli individui dalle condizioni di nascita, dal sesso, dall’etnia, dall’educazione ricevuta, dalla lingua, dalla religione, talvolta dal colore della pelle; ma in altri casi è l’individuo che sceglie di appartenere a diversi gruppi sociali, assumendone i modi distintivi di essere, di apparire, e quindi di abbigliarsi.
Ancora più del secolo scorso, questo sembra essere il secolo delle più grandi trasformazioni sociali che l’umanità abbia, per quanto ne sappiamo, mai vissuto. E la rapidità dei cambiamenti è talvolta imprevedibile e spiazzante. 

Le attuali trasformazioni sociali sono evidenti in un esempio tratto da Francesco Sisci, La Cina cambia. Piccola antropologia culturale dei grandi mutamenti a Pechino (GoWare, 2015):

“Al limite di piazza Tienanmen, vicino a Zhengyangmen (“la Porta di Mezzogiorno”), a duecento metri dal mausoleo di Mao, c’è un posto in cui i bambini possono farsi fotografare vestiti da piccoli imperatori manciù, seduti su un trono. Il luogo è simbolico […]. Ogni giorno c’è una fila di genitori, provenienti perlopiù dalla campagna, che tengono per mano i bambini e aspettano di fare una foto in segno di buon augurio. Desiderano tutti che i loro figli abbiano successo nella vita, che diventino, nel loro piccolo, imperatori”.

Si pensi al contrasto evidente di tale recente moda cinese con l’immagine di non molti anni fa dei tanti pechinesi in bicicletta, tutti vestiti con la stessa identica uniforme, mentre si recavano al lavoro.

Un altro esempio di abbigliamento dal forte connotato simbolico e sociale è quello femminile. La condizione delle donne nella società e il loro crescente ruolo nel mondo del lavoro e dell’economia ha condotto anche a una continua rivoluzione nella moda: dalla minigonna a cui si accennava prima, al look unisex, dal bikini al topless.
Risulta sempre più evidente come, anche nel modo di vestire, il ruolo della donna nella società sia in trasformazione, nel contrasto simbolico pluripolare e plurivoco fra il mettere in evidenza le differenze sessuali, e la tendenza ad annullarle.
Questo almeno nella civiltà occidentale, tuttora relativamente egemone nella globalizzazione, ma che dire di altre importanti culture tradizionali nelle quali il ruolo femminile ha subito nella storia differenti evoluzioni?

Il mondo di cultura islamizzata, con differenti intensità, vive questa trasformazione sociale globale in tutti i suoi aspetti più contrastanti. Lo sviluppo evolutivo sociale appare qui nella sua fase storica forse più delicata, sia nel modello sistemico che nel campo delle relazioni, e il rapidissimo incremento della globalizzazione delle informazioni assume talvolta il ruolo di agente provocatorio e potenzialmente rivoluzionario di paradigmi culturali radicalizzati e finora funzionali.
Forse è questa la chiave per comprendere meglio la grande importanza simbolica che assumono i comportamenti sociali e in particolare l’abbigliamento femminile tradizionale delle etnie arabe, per non parlare di quelle persiane o pakistane. E ciò appare ancora più evidente nel caso dei sempre più numerosi immigrati nei Paesi occidentali. Probabilmente il punto focale della scelta di indossare il velo da parte di tante donne islamiche che vivono in Occidente non è tanto la religione o l’ideologia, quanto l’appartenenza culturale, etnica, in contrasto con la globalizzante spersonalizzazione dei ruoli tradizionali. L’abito è quindi, anche in questo caso, il simbolo più evidente dell’identità e dell’appartenenza, percepita sempre più necessaria quanto più negata, e della personale e sociale distinzione nel mondo globalizzato in cui le differenze tendono a non esistere più.

Paradossalmente la globalizzazione culturale sta producendo uniformità, ma anche divisioni sempre più radicali e reciproche intolleranze. Il ragionare in termini di “noi” e gli “altri” è una visione distorta che l’oggettivo e razionale punto di vista biologico e genetico di Cavalli-Sforza non è sufficiente a cambiare: serve davvero un mutamento filosofico universale nella percezione di sé e nella percezione dell’individuo nella società globale, nell’ottica dell’accettazione delle mille diversità umane in un unico contesto tendenzialmente armonico.
La soluzione ai contrasti ideologici e culturali può essere solo quella della visione di miliardi di individui “tutti” diversi fra loro, e quindi “tutti” uguali nelle loro affermazioni personali, che sono necessariamente uniche e irripetibili.     

In questo millennio, mentre cambiano le ideologie, l’economia mondiale, il concetto di famiglia, il modo e i modi di vivere e di rapportarsi agli altri nel villaggio globale, l’individuo si sente fortemente spiazzato: spesso solo, privo di ruolo sociale riconosciuto, e quindi di identità.
Da ciò derivano anche le nevrosi, sempre più frequenti e sempre più folli nelle loro manifestazioni.
Sentirsi, e mostrarsi, tramite l’abbigliamento, membri di un gruppo, può fornire identità a chi se ne ritiene privo, e può condurre a una sostanziale integrazione sociale, spesso a prezzo dell’accettazione di un’ideologia orgogliosamente ostentata con l’abito caratterizzante.

Riuscire veramente a sentirsi e a percepire se stesso come un essere unico e irripetibile, accettarsi nelle proprie individuali diversità, nei propri limiti e nei propri talenti, distinguere le proprie innate qualità di esseri umani e i valori universali ad esse collegati dalle convenzioni sociali, dalle ideologie, dalle credenze indotte e inconsciamente assimilate, dai contesti socio-culturali, dalle morali e dai moralismi legati allo spazio e al tempo, e dai pregiudizi che ne derivano, è forse l’unica soluzione ai contrasti sociali e culturali di inizio millennio.

La riflessione sul simbolismo invita a una vera, autorevole e convinta presa di coscienza della propria individualità e della propria sacralità che supera ogni differenza apparente e ogni bisogno di affermazione di una identità che appartiene al mondo egoico della materia e non a quello libero dello spirito.
Il che, in altri termini, evidenzia l’ontologica differenza fra l’abito e chi lo indossa, ovvero fra l’apparire e l’essere.




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