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IL CIBO COME SIMBOLO E COME BANDIERA

a cura di Giovanni Pelosini
 

Abbiamo recentemente parlato di simboli dell’identità culturale e di modo di mostrarsi al mondo, prevalentemente tramite l’abbigliamento. Ma l’habitus sociologico non è solo il vestito, e sempre più, specialmente in questa fase storica di globalizzazione culturale imperante, esso si manifesta anche con comportamenti, stili di vita, tatuaggi, e (perché no?) anche scelte alimentari.

“Parla come mangi!” si diceva un tempo, per invitare a un linguaggio familiare; ma intanto le cucine etniche sono diventate patrimonio della cucina internazionale. Oggi la differenza alimentare non è più una simbolica discriminante etnica, e nemmeno di classe sociale, bensì decisamente antropologica.
Un tempo si poteva ironizzare sugli stereotipi degli italiani mangia-spaghetti, dei cinesi e del loro riso alla cantonese, dei tedeschi “birra e salsiccia”, della dieta americana che conduceva all’obesità… ma oggi si può ordinare una pizza in ogni angolo del mondo, il trash food e il fast food stanno producendo patologie comuni a tutti i continenti, e si può scegliere pressoché ogni tipo di cibo quasi ovunque.

Una discutibile abitudine dei social network è quella di fotografare i propri piatti preferiti e di mostrarli al mondo con orgoglio, suscitando le più svariate reazioni del vasto pubblico degli “amici”, sempre più coincidente con la società globale, seppur virtuale. Così scopriamo che c’è chi apprezza sopra ogni cosa la bistecca alla fiorentina e dichiara il suo amore per i tradizionali piatti di carne, magari al sangue, e chi, al contrario, inorridisce al solo pensiero, preferendo pesce, frutta o verdure, ovvero la dieta macrobiotica. Recenti sondaggi quantificano i vegetariani in circa il 15% degli italiani: una minoranza cospicua e in sensibile crescita.
Niente di male in tutto ciò: i gusti personali sono da sempre numerosi quanto gli esseri umani. Eppure l’antico vizio di catalogare, seguito dal più pericoloso giudizio sommario delle categorie, sta prendendo spunto anche da questa ostentazione per produrre dicotomie estreme e reciprocamente intolleranti.

Nessuna sorpresa per i cultori di astrologia: la sesta Casa astrologica è quella delle categorie, e anche quella delle abitudini quotidiane, come quelle alimentari, con tutte le conseguenze sulla salute. Nonché quella degli animali domestici, alcuni dei quali sono visti da alcuni come fonte di appetitosi piatti, e da altri come animali da compagnia.

L’ultimo casus belli è stato la dichiarazione ufficiale dell’Organizzazione Mondiale della Salute, che ha invitato i cittadini del mondo globalizzato a limitare drasticamente il consumo di carne al fine di evitare il diffondersi di gravissime patologie. Mai un tale monito alimentare aveva avuto una fonte così attendibile, e mai aveva scatenato così tante reazioni di opposto segno: ministri, scienziati, esperti nutrizionisti si sono velocemente mostrati in televisione ed espressi sui giornali quasi sempre per tranquillizzare l’opinione pubblica, spesso minimizzando la questione, talvolta mascherando un certo imbarazzo. La reazione dei cittadini, sempre più nella loro veste di semplici consumatori, è stata ancor meno misurata.

Di recente ho percepito, sempre più nettamente, una vera e propria frattura antropologica, un fossato che tende a diventare ampio e divide la specie umana in due gruppi grossolanamente, eppur profondamente, distinti. Da un lato ci sono i carnivori, dall’altro i vegetariani: ciascuno con i rispettivi sottogruppi estremisti, pronti alla “guerra di religione”.
Sono fioccate offese anche pesanti a carico delle categorie dei cacciatori e dei vegani, ormai viste su fronti antropologici opposti e percepiti come fazioni estremiste. L’intolleranza reciproca è cresciuta ad alti livelli, al punto che per una persona tranquilla che non ama schierarsi è sempre più difficile fare una specifica richiesta al cameriere di un ristorante senza suscitare, come minimo, imbarazzanti e giudicanti sguardi, se non domande sul perché delle personali scelte alimentari da parte dei compagni di tavolo.

È molto frequente che l’ordinare una braciola al sangue, o semplicemente il dichiararsi cacciatore, ci faccia giudicare “barbari inconsapevoli”, se non addirittura “assassini”. Analogamente, se ordiniamo un’insalata vegana, rischiamo di essere osservati come “pericolosi fanatici” o mortificatori del proprio senso del gusto.
Da qui, poi, ahimè, il discorso si allarga come il dicotomico fossato. E senza alcuna sottigliezza spesso si fa un unico disprezzato fascio di vegetariani, ambientalisti, animalisti, celiaci e salutisti; mentre sull’altro fronte si risponde con uguale generica discriminazione. I toni non sempre sono gli stessi, ma la sostanza cambia poco.

Una delle più ascoltate radio nazionali (Radio 24, il Sole 24 Ore) propone agli ascoltatori due distinti programmi che prendono apertamente posizioni opposte sull’argomento delle scelte alimentari, non senza venature, più o meno marcate, di faziosità da parte dei conduttori. Evidentemente l’emittente non vuole rinunciare alla simpatia di nessun ascoltatore-consumatore, ma intende parlare alle sue emozioni più che alla sua ragione.
Altrettanto evidentemente sembra che non ci sia modo di operare per una sintesi delle posizioni contrapposte, nemmeno nel segno di una diffusa tolleranza, che dovrebbe essere patrimonio comune della civiltà due secoli dopo il pensiero illuminato di Voltaire.

E proprio nel secolo di Voltaire, Jonathan Swift scriveva una garbatissima storia metaforica e satirica sulla società ancora intollerante del tempo: I viaggi di Gulliver, 1726. Con la scusa di narrare, in prima persona, le avventurose vicende di un chirurgo e capitano della marina britannica all’esplorazione sagittariana dei mari del Sud (Swift, nato il 30 novembre 1667, aveva tutta l’esuberanza del Sole in Sagittario), l’autore si dilunga nella descrizione di fantasiose società nelle quali i vizi degli uomini e il loro litigioso carattere si mostrano con sarcasmo allusivo.
Nel celebre romanzo Lemuel Gulliver racconta di essersi trovato abbandonato nell’isola di Lilliput, che era abitata da minuscoli esseri in tutto uguali agli umani, ma dodici volte più piccoli. I lillipuziani, non meno degli umani di ogni epoca e nazione, erano divisi in due fazioni.

«Dovete sapere che da più di settanta lune due partiti si contrastano il potere, sotto i nomi di “tramecksan” e “stamecksan”, che significano “tacchi-alti” e “tacchi-bassi”, poiché i due partiti si distinguono appunto dalla maggiore o minore altezza dei loro tacchi. […] I due partiti si odiano a tal punto da non mangiare né bere né parlare insieme. I tacchi-alti, secondo i nostri calcoli, sono più numerosi, ma noi abbiamo il potere. Però temiamo assai che sua altezza l’erede presuntivo della Corona abbia un po’ di debole per i tacchi-alti; certo, tutti vedono che uno dei suoi tacchi è più alto dell’altro, sì da farlo zoppicare quando cammina» (J. Swift, I viaggi di Gulliver, IV).

Allora come oggi, nella realtà come nella fantasia, le contrapposte ideologie si manifestano con simboliche caratteristiche evidenti del comportamento, e con reciproca intolleranza. L’autore alludeva probabilmente ai partiti dei Whigs e dei Tories, ma anche alle guerre di religione che avevano a lungo insanguinato l’Europa e il Regno Unito con l’odio mortale fra i Protestanti e i Cattolici.
Nel romanzo il massimo del sarcasmo si raggiunge, infatti, quando si narra di due fazioni di lillipuziani che si odiavano fino a farsi la guerra a motivo della scelta di rompere le uova dalla parte più grossa o da quella più stretta. Il lettore del XVIII secolo trovò ridicole queste motivazioni, e noi del XXI facciamo altrettanto, ma quanti si riconobbero e si riconoscono come bersagli delle allusioni satiriche di Swift, aspro censore delle lotte ideologiche e nemico dell’intolleranza diffusissima nella società moderna?

«I nostri storici da seimila lune non menzionano altri paesi che non siano i due grandi imperi di Lilliput e di Blefuscu. Per trentasei lune queste due formidabili nazioni si sono consumate in una guerra ostinata per il seguente motivo. Tutti sanno che il modo naturale di aprire le uova per berle è quello di romperne la punta più grossa; ma l’avo dell’imperatore regnante, volendo da bambino rompere un uovo col vecchio sistema, si tagliò disgraziatamente un dito; dimodoché l’imperatore suo padre ordinò a tutti i suoi sudditi, con la minaccia di gravi pene, di rompere le loro uova dalla punta più stretta. Questa legge indignò talmente il popolo da dar luogo a sei rivoluzioni durante le quali, a quel che raccontano i nostri storici, un imperatore perdette la vita, un altro il trono. I sovrani di Blefuscu hanno sempre incoraggiato queste intestine discordie, dando asilo nel loro impero a coloro che vi si rifugiavano durante le repressioni. Si calcolano a dodicimila le persone che in epoche diverse hanno subito l’estremo supplizio piuttosto che piegarsi alla legge di rompere le uova dalla punta stretta». (J. Swift, I viaggi di Gulliver, IV)

Il male più grosso della società di Lilliput ci appare ancora oggi in tutta la sua ridicola nonché mostruosa inumanità: oggi lo chiamiamo “fondamentalismo” e lo vediamo imporre in varie parti del mondo le ideologie o le credenze religiose come leggi statali valide per tutti i cittadini.

«Centinaia di grossi volumi sono stati pubblicati su quest’argomento, ma da un pezzo i libri dei “grossapuntisti” sono stati proibiti, e tutto il loro partito è stato interdetto dalle cariche pubbliche. Durante questa lunga serie di lotte, i sovrani di Blefuscu ci hanno mosso molte rimostranze per mezzo dei loro ambasciatori, accusandoci di commettere un delitto violando un precetto fondamentale del nostro grande profeta Lustrog, che si trova nel cinquantaquattresimo capitolo del “Blundecral” [il loro Corano]. Si trattava infatti semplicemente d’una diversa interpretazione del testo che dice: “Tutti i fedeli rompano le uova dalla parte che credono più comoda”. Perciò io stimo che spetti alla coscienza di ciascuno decidere qual è la punta più comoda, o tutt'al più toccherà all'autorità del sommo magistrato di definirla. Ma i “grossapuntisti” hanno trovato tanto credito alla corte di Blefuscu e tanto seguito nel nostro stesso paese, che tra i due imperi si è trascinata per trentasei lune una guerra sanguinosissima con diversa fortuna». (J. Swift, I viaggi di Gulliver, IV)

Che si tratti di fondamentalismo nelle scelte religiose o alimentari in fondo poco cambia. Si tratta pur sempre di intolleranza per l’altrui pensiero, che, in qualche caso, degenera in discordia, aperto odio o conflitto.
Il capriccio di un monarca lillipuziano scatenò una lunga e sanguinosa guerra basata sull’insignificante fatto che non si volle tollerare la libertà di rompere il guscio dell’uovo in un modo anziché in un altro. Ci appare buffo? I ministri di Lilliput risponderebbero che è per il bene del popolo, per evitare che le persone si taglino le dita.
Ci sembra comunque ridicolo?
Beh, sì, lo è quanto il manifesto disprezzo per chi non condivide una determinata dieta o scelta alimentare; lo è quanto il voler imporre di pregare o di concepire Dio in uno specifico modo.

Ecco che il sarcasmo di Jonathan Swift colpisce anche i nostri tempi come aveva colpito i suoi, giacché la litigiosità del genere umano non si è affievolita nei secoli nei quali la luce della ragione e lo straordinario sviluppo tecnologico avrebbero potuto e dovuto far fare almeno un salto di qualità anche alla nostra consapevole coscienza.
Rassegniamoci: oggi si bisticcia sui gusti alimentari, si discute animatamente su quelli sessuali, ci si giudica e ci si discrimina in base agli abiti e si continua a odiarci a causa delle religioni (che, al contrario del resto, spesso neanche scegliamo).
Forse ridiamo ancora delle usanze dei lillipuziani, ma siamo altrettanto “piccoli” nell’ottica parziale della nostra complessa società. E l’umanità ha ancora tanta strada da fare prima di raggiungere una condivisa visione etica universale che riconosca nei simboli l’originario ruolo aggregante e non quello dividente, e nella tolleranza il principio della nostra stessa libertà.




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