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OSCAR LA POLITICA DELL'ARTE

a cura di Lorenzo Pelosini
 

Se le nomination di questi Oscar 2016 erano in ottima parte giunte come una gradita sorpresa che lasciava presagire aria di cambiamenti qui a Hollywood, o quantomeno la promessa di una giustizia a lungo attesa da alcuni artisti, i risultati hanno mantenuto tale promessa solo parzialmente.

Nelle varie categorie artistiche e tecniche (per quanto la separazione sia ardua in questo specifico campo), i grandi titoli al top delle nomination erano The Revenant (12 candidature), Mad Max – Fury Road (10), The Martian (7), Bridge of Spies [Il Ponte delle Spie], Spotlight [Il Caso Spotlight] e The Big Short [La Grande Scommessa], questi ultimi tre a pari merito con sei nomination.

La preferenza dell’Academy verso i film politici è ben nota in tutta l’industry Hollywoodiana. Eppure i favoriti nelle nomination erano film dallo stampo decisamente avventuroso, dei blockbuster d’autore, potremmo dire, basati su un massivo utilizzo di effetti speciali e maestosi paesaggi fotografati con una grandiosità visiva finora inedita. Basti pensare alla portentosa fotografia interamente naturalistica di Immanuel (detto “El Chivo”) Lubezki nei boschi innevati di The Revenant o agli infiniti deserti dorati e rossi di Mad Max e The Martian, dove i colori del cinema contemporaneo sembrano trovare un’intera malinconica nuova vita negli estesi campi lunghi voluti dai registi Miller e Scott.

I primi tre nomi sul podio erano infatti film dal grande respiro e dall’ancor più grande ambizione, quella di celebrare l’uomo eccezionale e solitario immerso nell’immensità del mondo al di là della civiltà che dona nuova vita a paesaggi morti con la sua presenza. Di Caprio, Matt Damon e Tom Hardy: tre grandi giovani talenti in lotta col tempo e gli elementi per sfuggire alla morte nel grande deserto o nei monti innevati. Così come loro, anche i grandi registi dietro queste pellicole lottavano, come sempre, con tempo e elementi per rendere giustizia alle grandi storie che cercavano di narrare. Insomma, un anno straordinario, questo 2015, per l’abilità di reinventare il grandioso. Un’abilità che questi Oscar sembravano, per una volta, voler premiare.

Così come le nomination, anche la cerimonia sembrava puntare su una direzione ben precisa.
Mad Max inizia aggiudicandosi Miglior Trucco, poi Miglior Sonoro e Montaggio Sonoro. Seguono Costumi, Scenografie e persino Montaggio, vera anticamera degli Oscar artistici. Tuttavia, non appena le categorie tecniche si esauriscono, così si esaurisce l’irrefrenabile spinta propulsiva di Mad Max, che sembrava viaggiare a rotta di collo verso Miglior Film.

La Miglior Fotografia viene cionondimeno donata al grande “Civo” Lubezki per The Revenant, seguita da un inaspettato ma gradito Oscar alla Regia per il messicano Alejandro G. Inarritu, già vincitore della scorsa edizione con Birdman. Artisticamente, questo denota un maggior apprezzamento di una sensibilità non necessariamente americana nel creare un visivo strabiliante, già confermata dall’Oscar di Alfonso Cuaron per la regia di Gravity. Politicamente, questo determina un grande passo avanti nel considerare questi maestri del cinema messicano come parte integrante del panorama statunitense e internazionale. Non solo, ma sia queste candidature sia le vittorie confermano che la polemica contro i cosiddetti “White Oscar” è di fatto sbagliata. Quelli che hanno boicottato gli Oscar per la loro assenza di varietà etnica, non si sono resi conto che molti dei candidati, come Inarritu o El Civo (il cui soprannome significa, in effetti,“uomo di colore” nello slang Messicano), sono assai lontani dall’essere wasp.

In questo senso, si può dire che la politica dell’Academy ha fatto notevoli passi avanti. Passi di cui tutta l’industry è grata. Dove invece gli Oscar mantengono i piedi saldamente ancorati alla tradizione è nella premiazione del Miglior Film.
Alla fine della serata, l’Oscar alla Miglior Sceneggiatura Originale, seguito da quello al Miglior Film, vanno a Il Caso Spotlight (Spotlight in originale). Da un punto di vista socio-politico c’è da dire che il film affronta una tematica rovente: la pedofilia nella Chiesa cattolica. Un tema così controverso che, ahimè, nella nostra Italia, un film del genere sarebbe stato boicottato dalle istituzioni religiose e non avrebbe mai raggiunto i cinema. In questo come in molti altri casi, l’America mostra il suo lato migliore in termini di libera critica. Sebbene le istituzioni plutocratiche che governano il paese, quali alcune multinazionali, restino quasi sempre virtualmente inattaccabili dalla stampa e dall’arte popolare, gli Stati Uniti hanno dimostrato al mondo di riuscire a mantenere una critica artistica e di stampa puntata su tutte le altre istituzioni politiche e poteri forti. Inclusa le Chiese. Questo grande merito e coraggio, non solo non va sminuito, ma deve essere giustamente riconosciuto nella sua interezza e portato all’attenzione del grande pubblico. Cosa che l’Academy contribuisce egregiamente a fare.

Tuttavia, nel mondo del cinema, l’Academy è essa stessa uno status quo, con le sue regole interne, i suoi accordi segreti e i suoi sistemi di potere difficilmente aggirabili. Fra i suoi obblighi e tendenze, quello di privilegiare il tema scottante sopra ogni altro valore di un film. Il dilemma è che, cinematograficamente parlando, Mad Max, The Revenant e The Martian sono film straordinari sotto quasi tutti gli aspetti, mentre lo stesso non si può dire di Spotlight. In questo ultimo caso, la sola cosa straordinaria del film è appunto il suo coraggio tematico. Per il resto, Spotlight presenta un’esposizione narrativa didascalica e una messa in scena incolore e priva di forza espressiva o di una firma autoriale di qualsivoglia genere. Il film pullula poi di ottimi interpreti che svolgono il loro lavoro egregiamente. Michael Keaton riconferma il suo grande ritorno come interprete di serie A, Rachel McAdams sfoggia come sempre la sua sobria versatilità e Mark Ruffalo contagia lo schermo con la sua nota fragile umanità, che, come il Bruce Banner da lui interpretato negli Avengers, nasconde una segreta forza. Ma la sceneggiatura non è costruita per concedere a queste interpretazioni di brillare fino a divenire innovative o memorabili. Gli attori sono in scena, così come i giornalisti da loro interpretati, per servire la verità. La vera star del film sono i fatti: lo scandalo, la storia vera su cui è basato, la fedele riproduzione di una vera indagine giornalistica che ha messo a nudo una verità taciuta vincendo il Premio Pulitzer. Nessun istrionismo, nessuna licenza (se non quella strettamente necessaria alla minima drammatizzazione richiesta ad un film non documentaristico), e nessuna identità interpretativa. Insomma, il coraggio artistico di Spotlight non equipara affatto il coraggio tematico.

In realtà la questione del merito della vittoria del film di McCarthy è complessa e comporta alcune domande assai arduealle quali rispondere. È possibile che Spotlight sia un film creato appositamente per gli Oscar? In altre parole, la pellicola si eleva all’attenzione pubblica usando la forza di una storia realmente avvenuta e di una verità già investigata e portata alla luce, ma non compie nessun ulteriore passo avanti. Anzi, il film si appiattisce artisticamente per sfruttare il tema per sopperire alla assenza di uno stile riconoscibile e apprezzabile in se stesso. L’altra opzione è che i creatori abbiano, sì, fatto tutto questo coscientemente, ma per mostrare, anziché sfruttare. All’alba del dopoguerra, del resto, il cinema italiano risorse dalle sue ceneri e insegnò al mondo un nuovo rivoluzionario approccio al dramma di alcuni aspetti della storia e della vita. Privati dei mezzi per portare a termine un film dallo stile impeccabile, i registi si riversarono nelle strade armati solo di camera e cavalletto, mostrando le vere macerie della guerra e vere persone affamate trasformate in attori per un giorno. Lo stile si era fatto da parte per esaltare la verità che spesso il cinema classico finisce per nascondere dietro le distrazioni della forma. Ora, i maestri del Neorealismo avevano comunque uno stile, e i loro film possedevano un inestimabile valore artistico e una abilità narrativa nell’indagare il volto umano e le sue emozioni che il film di McCarthy (come molti altri) non equipara. Cionondimeno è possibile che Spotlight voglia in realtà tenere da parte la patina divistica e stilistica che Hollywood si porta dietro da generazioni e lasciare spazio alla vicenda. Non per sfruttarla, ma per portarla alle orecchie e agli occhi di tutto quel grande pubblico che non era ancora al corrente della vera indagine compiuta nel 2001 dal Boston Globe. Sotto questa prospettiva, anche l’idea di creare un film sociale appositamente per l’Oscar, potrebbe essere un’abile mossa politica, non semplicemente per servire la notorietà del film, ma la notorietà della storia che porta dentro, comportandosi così come gli eroici giornalisti che il film ritrae.

A seconda del punto di vista, Spotlight può essere una di queste due cose o le due cose insieme. Quale sia la risposta, sta a noi deciderla singolarmente. In termini meramente artistici, il tempo (e non gli Oscar) ci mostrerà, come ha sempre fatto, quali film meritano di essere ricordati. Infatti, i vincitori immeritati dell’Oscar al Miglior Film, quali Argo, Crash o The Hurt Locker vengono rapidamente dimenticati, mentre i grandi esclusi come The Dark Knight, Blade Runner o, chissà, persino Mad Max, tendono a crescere in notorietà e a restare nel ricordo e sul palato dello spettatore come il buon vino. Per quanto invece riguarda il valore politico, a prescindere dal fine con cui è stato prodotto, la vittoria di Spotlight comporta una vittoria della verità sulla repressione, uno schiaffo a una, ma forse a tutte, le istituzioni che conservano il proprio potere a scapito dei più deboli ridotti a vittime silenti. La vittoria agli Oscar porterà nuovo pubblico di massa verso il film di McCarthy, nuove persone che, questa è la speranza, inizieranno sempre più a diffidare delle istituzioni di potere e inizieranno ad essere più attive nella ricerca di quello che giace sotto le bugie di tutti i giorni.

Al concludersi di questa 88° Edizione (un numero che nel cinema è sinonimo di futuro e profondo cambiamento), l’Academy si mostra, insomma, un’entità complessa e contradditoria. Nel tempo, essa è venuta ad associarsi al cinema stesso e possiede quindi delle responsabilità complesse e variegate nei confronti del mondo del cinema e del mondo in generale. Da un lato l’Academy porta avanti battaglie socio-politiche tramite la premiazione del Miglior Film (anche quando essa entra in conflitto col valore artistico del film stesso). Dall’altro lato essa ancora non può o non vuole affrontare alcune istituzioni di potere interne al suo stesso mondo, come ad esempio la Disney. Infatti, così come era precedentemente avvenuto a grandi capolavori d’animazione, come Appuntamento a Belleville o Si Alza il Vento, anche quest’anno il vero meritevole “Davide” viene spinto fuori gara dal “Golia” Pixar, che vince il suo obbligatorio Oscar con Inside Out. Il quale è, intendiamoci, un film che ha del geniale in termini di sceneggiatura originale (Oscar che meritava di vincere, ma che è andato invece a Spotlight per le suddette ragioni). Tuttavia, il suo approccio all’animazione è quanto mai classico. Mentre il vero protagonista di quest’anno era Anomalisa di Charlie Kaufman, una vera rivoluzione narrativa, compiuta da quello che è forse il più grande scrittore di questo decennio, ma che è e resta un film prodotto indipendentemente e che non può permettersi di rivaleggiare con l’impero Disney.

Questo porta l’Academy a una grande riluttanza nel premiare il vero genio in campo e a puntare molto spesso sulla tradizione, almeno fin quando la vox populi non si fa assordante. Infatti, i successi più applauditi di questa edizione sono due dei più grandi artisti delle rispettive generazioni e ambiti. Quella sera la Luna e Marte in Scorpione, hanno fornito la spinta di fortuna finale e l’energia necessaria a questi due celebri nativi del segno. La platea si è alzata in piedi per onorare il grande Leo Di Caprio che approda finalmente ad un riconoscimento meritato sin dal lontano 1992. Leo si riconferma vero “revenant” (redivivo) di Hollywood e, da degno Scorpione, risorge dall’oscurità ancora più forte, aiutato dalla Luna che, proprio in quell’ora, si trovava in rara e perfetta congiunzione coi suoi Sole e Venere in trigono a Saturno di nascita. “Io non davo questa notte per scontata” ha dichiarato Leo, diffidando, come il Romeo da lui interpretato, dell’Astro Notturno, con un tocco di sobria ma palese commozione. Una commozione ancor più ampia ha contagiato la platea e il mondo del cinema in generale quando l’ormai mitologico Ennio Morricone, maestro indiscusso della musica e vera anima sonora del cinema internazionale, ha abbracciato il suo unico pari vivente John Williams ed è salito sul palco abbracciato al figlio per ricevere il suo primo vero Oscar alla tenera età di 87 anni. Il fatto che The Revenant e The Hateful Eight non siano i migliori lavori di questi leggendari artisti non fa che confermare un’Academy che stenta a riconoscere il vero talento quando esso sboccia a rompere gli schemi, finché non lo premia quando ormai esso si è già imposto come tradizione.

Per quanto, forse, fuori tempo massimo e per quanto a volte in ambiti dove lo scontro è meno sanguinoso che in patria, Hollywood, qui simboleggiata dall’Academy, sembra avere quantomeno l’intenzione di agire coraggiosamente per combattere il male dell’omissione e, a volte, premiare il bene del talento.




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