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TARZAN E MOWGLI. I NOBILI CUCCIOLI D'UOMO

a cura di Lorenzo Pelosini
 

Hollywood sta crollando. O almeno questo è il segreto che si cela dietro al grande picco di successo economico degli ultimi due anni. Da più di un lustro, i grandi studios arrancano sul ciglio del disastro, minacciati dai network via cavo e satellite, dall’onnipresente potenza di internet e di creazioni ibride come Netflix e Hulu, che offrono migliaia di titoli cinematografici in alta risoluzione al prezzo di pochi dollari al mese.

In questo periodo di nuovi media, il grande schermo lotta per la sopravvivenza, aumentando la sua stazza come un istrice di fronte a un predatore, o meglio forse, come un pavone di fronte a un ammiratore. Così, come con piume e spine, la sostanza delle storie del grande schermo di fatto non cambia e non incrementa, ma è lo spettacolo ad aumentare ampiezza e colori. Ed è infatti il grande spettacolo e non la grande (o nuova) storia a fare da padrona sul grande schermo. Non forse tanto per scelta, ma, come già detto, per necessità. Non più timorosi di risultare vuoti o ripetitivi, i grandi studios investono centinaia di milioni nella costruzione di blockbuster che, almeno sulla carta, non sono che versioni più grandiose e digitali degli scontri fra gladiatori che tanto erano in voga al tempo dei Romani. I grandi eroi dei fumetti e del cinema d’azione ritornano (più vecchi o con volti di nuovi attori) e si scontrano l’un l’altro, talvolta creando pathos e significato, altre volte meramente divertendo. Ma la Hollywood di oggi non è solo eroi in costume che fanno le veci dei gladiatori. Al loro fianco i grandi studios riportano in campo le grandi storie archetipiche di cui tempo addietro avevano acquisito i diritti.

Il 2016 è un anno significativo per Hollywood. Un anno di grandi conflitti e grandi ritorni. Fra questi grandi ritorni, due grandi classici della letteratura che hanno negli anni trovato molte strade per presentarsi all’attenzione del pubblico del grande schermo. Il primo è il capolavoro di Rudyard Kipling,  Il Libro della Giungla [Jungle Book], il secondo è l’altro storico racconto riguardante un essere umano allevato dagli animali, Tarzan delle Scimmie [Tarzan of the Apes], ideato da Edgar Rice Burroughs ormai un intero secolo fa.

Le due storie, così come le loro trasposizioni cinematografiche, hanno un background assai differente, ma con molti punti in comune. La storia letteraria e cinematografica di Tarzan è assai sfaccettata e confusionaria. Dopo l’uscita del primo romanzo a lui dedicato dal suo autore, Burroughs riutilizza Tarzan in altri 24 romanzi, a cui seguono altri volumi di parziale o dubbia paternità. Segue un’eredità cinematografica estremamente sfaccettata che conta al suo attivo più di 45 film a lui dedicati, senza contare le parodie e le imitazioni a basso costo non autorizzate. Sta di fatto che dal primo film Tarzan of the Apes, diretto da Scott Sidney nel lontano 1918, fino all’odierno The Legend of Tarzan, il leggendario uomo-scimmia non ha mai abbandonato i nostri schermi grandi o piccoli per più di una manciata di anni. In questa lunga trafila si sono aggiunti in recenti anni due versioni animate (nella più recente delle quale fa capolino perfino una inedita forma di vita aliena). La più significativa delle due versioni è stata quella della Disney nel 1999. Non un vero capolavoro di animazione 2d in termini di espressività o profondità, ma un gigantesco passo avanti dal punto di vista tecnico, per l’integrazione di animazione classica e di quella digitale in 3D.

Nel caso del Libro della Giungla, il background cinematografico è decisamente più breve, eppure ben più intessuto di significato ed è da essa che partiremo per decifrare l’importanza di questi due ritorni. Il primo tentativo di trasportare sullo schermo venne intrapreso (con estremo successo) dalla Disney. Anzi, per la precisione il film omonimo del 1967 fu l’ultima grande fatica del colosso dell’animazione supervisionata dal suo fondatore Walt Disney prima della sua scomparsa, avvenuta l’anno prima che la pellicola debuttasse nelle sale. A metà del secolo scorso, la tecnologia che sarebbe stata necessaria per trasporre sullo schermo una versione credibile delle avventure di Mowgli e dei suoi amici e nemici animali non era neanche lontanamente concepibile. Data tuttavia l’estrema popolarità dell’opera di Kipling, Disney pensò bene di acquisirne i diritti per utilizzarla come base per uno dei suoi lungometraggi. La struttura episodica e l’ampio spazio dedicato ai personaggi non umani era infatti la perfetta piattaforma per fare spazio al talento degli animatori Disney che ne fecero la fortuna nella sua Golden Age, per l’appunto conclusasi con Il Libro della Giungla.

I Nove Anziani [The Nine Old Men], i leggendari autori dei personaggi che hanno cresciuto ormai più di tre generazioni ebbero così tutto lo spazio necessario per esibire la loro matita onnipotente per creare alcuni dei personaggi più memorabili della storia dell’animazione. Sono pochi i bambini, o se per questo anche gli adulti, che non ricordano l’allegra spensieratezza dell’Orso Baloo (che in seguito avrebbe ispirato i Timon e Pumba della Silver Age Disneyana), dallo spensierato e godereccio stampo taurino, la quieta simpatia di Bagheera, saggio mentore capricornino, l’inquietante sebbene a tratti ridicolo portamento del serpente Kaa, un demone scorpionico della giungla dalle mille metafore sessuali, e soprattutto l’impeccabile classe inglese e assoluta spietatezza della tigre Shere Khan, un personaggio leonino destinato a gettare le basi per un’infinita serie di villain animati e non, che da quel momento in poi non mancarono mai di avere un accento britannico e un’educata freddezza verso le proprie vittime. Lo stesso Andreas Deja, leader animatore della Disney attuale, creatore di Jafar, Scar e Hercules, col quale ho avuto il piacere di conversare, ha ammesso che l’eredità lasciata dagli animatori del Libro della Giungla è stata la più difficile da superare, soprattutto in termini di espressività e portamento dei personaggi. In altre parole, se il primo film tratto dall’opera di Kipling non si può certo dire un capolavoro della narrativa cinematografica, lo si può senza dubbio definire un capolavoro della tecnica e, più precisamente, del talento artistico ed espressivo dei veterani della Disney, in un’epoca in cui era ancora un’allegra bottega di sognatori, anziché una sovrana incontrastata e ingorda di nuovi possedimenti.

Questo ci porta a comprendere la prima ragione che ha condotto “l’Impero Disney” al recentissimo reboot cinematografico, questa volta con attori in carne e ossa. Come ogni persona o entità che ha avuto la sua epoca d’oro, la Disney è ossessionata dal replicarlo, se non artisticamente, quantomeno finanziariamente. E per farlo, fa leva sulla nostalgia di un pubblico che, come è inevitabile, vaga cercando la magia della sua infanzia perduta. Ed è proprio in quest’aspetto che Il Libro della Giungla, e per certi versi Tarzan, assumono una particolare importanza metaforica e meta-cinematografica. Chiediamoci dunque in cosa si cela il successo letterario e cinematografico di questi due grandi classici. In altre parole, per quale motivo siamo così affascinati dall’idea di un bambino che cresce circondato dagli animali in mezzo alla giungla, lontano da quella che dovrebbe essere la sua specie? Ironicamente, la risposta è legata allo stesso fattore che la Disney e altre compagnie stanno usando per assicurarsi una nuova era di successo finanziario: tutti noi siamo in cerca dell’infanzia. Analizziamo quindi la figura di Mowgli e di Tarzan.

Entrambi sono due facce dello stesso archetipo: il bimbo sperduto, fuggito per volontà o fatalità dal normale percorso di crescita che lo aspetta all’interno della società che lo ha partorito. Con la sola differenza della cornice geografica (Mowgli si ritrova nella giungla indiana mentre Tarzan in quella Africana), le origini e la storia sono pressappoco le stesse. Appena nato, la famiglia umana che lo alleva è costretta da cause di forza maggiore ad abbandonare il proprio figlio nella giungla. Anziché morire solo e affamato, o peggio ancora tramutato esso stesso in pasto di un predatore, il bambino viene allevato dagli animali stessi. Tarzan viene prevalentemente cresciuto dalle scimmie, mentre Mowgli viene inizialmente allevato da un branco di amorevoli e saggi lupi, successivamente “addestrato” dalla pantera Bagheera e dall’assai meno formale orso Baloo. A questa miracolosa continuazione della vita in un ambiente comunemente considerato selvaggio e ostile, seguono anni formativi, dove il “cucciolo d’uomo” viene allevato dal branco apprendendo da esso tutte quelle doti e abilità che sono proprie di quella razza di animali.

Nel caso di Tarzan si tratta principalmente di un’agilità sovrumana e della capacità di “volare” attraverso la Giungla da una liana all’altra (un archetipo successivamente trasferito in un ambito metropolitano da Stan Lee per l’altrettanto celebre e longevo Spiderman), mentre per Mowgli si tratta di istinto di sopravvivenza e capacità di interagire con un branco. Quello che questo archetipico “bambino bifronte” apprende in queste due storie gemelle sono dunque abilità fisiche, certo, ma soprattutto comunicative. Partiamo dalla cosa più ovvia. La lingua madre di Tarzan e Mowgli non è quella umana. A differenza di ogni altro essere umano cresciuto all’ombra della civiltà basata sulla parola, questi due cuccioli d’uomo non hanno mai sostituito il loro linguaggio primordiale e innato fatto di vagiti e gesti con uno qualunque dei tanti linguaggi creato da una qualunque delle società contemporanee. In altre parole, la loro lingua madre è ancora quella che tutti noi abbiamo dimenticato. Attraverso quella lingua madre, Tarzan e Mowgli comunicano con la specie che li ha allevati. Se la cosa si limitasse a questo, potremmo ipotizzare una mera motivazione legata all’imprinting. In altre parole, Tarzan e Mowgli hanno semplicemente appreso il linguaggio delle scimmie o dei lupi come ognuno di noi apprende la lingua dei genitori. Con una sola ma significativa eccezione: entrambi i personaggi non si limitano a comunicare col proprio branco o anche solo con la specie che li ha allevati. Essi sono in grado di comprendere e interagire senza sforzo con ogni tipo di animale, ad eccezione, beninteso, dell’essere umano.

Questo lascia presagire forse la più importante lezione di queste due opere che sta alla base del loro fascino e della loro longevità. La lingua che i due bambini hanno imparato stando nella giungla è un vero pre-linguaggio primordiale comune a tutti gli esseri dotati di volontà, esclusi appunto gli umani. E a togliere ogni dubbio sull’intenzione celata dietro a tale linguaggio, è Rudyard Kipling a chiarire la natura legata ad esso. Gli animali della giungla con cui Mowgli entra in contatto non sono tutti benevoli verso di lui. Se alcuni sono amorevoli e protettivi, altri hanno pregiudizi verso di lui, altri portano tale pregiudizio fino all’aperta ostilità. Ma una cosa non sono: gli animali non sono mai selvaggi. Anzi, la loro condotta morale è ricolma di codici d’onore e il loro linguaggio è sempre altamente ricercato e perfino sofisticato e aristocratico. Infatti, è Mowgli, così come Tarzan, ad essere inizialmente guardato con sospetto dai suoi fratelli adottivi della giungla. Perché fra tutte le specie è l’uomo quel solo strano intruso che si è distaccato immotivatamente dalla giungla. Lui e non altri si è costruito un piccolo mondo artificiale lontano dal luogo a cui apparteneva, finché il suo pelo si è ritirato, i suoi artigli si sono assottigliati e persino la sua lingua e la sua mente hanno smesso di parlare quel linguaggio primordiale che gli permetteva di comunicare con quelli che, per ragioni naturali, sono i suoi fratelli. Lui ha sviluppato avidità e forme innaturali di ingordigia, brama di potere e conseguente ostilità verso la sua stessa specie. A buon diritto, infatti, ben più di Sabor o Shere Khan, i due felini che fanno da antagonisti nelle due versioni animate, è l’essere umano la creatura più temuta da chi vive nella giungla. Eppure qui arriva d’obbligo una distinzione.

Come già detto, l’uomo è nato nella giungla e appartiene alla giungla per natura. Solo successivamente, egli ha deciso di distaccarsene per intraprendere una strada diversa. Così come nel Bacchae di Euripide, l’uomo si è allontanato dalla sorgente del suo potere e della sua stessa vita per confinarsi in una prigione di ferro e mattoni da esso stesso creata. E così facendo si è dimenticato dell’esistenza di Dioniso, spirito di tutto ciò che è istintivo, dalla danza, al gioco, al sesso fino, ovviamente, all’infanzia. Pertanto, Tarzan e Mowgli non sono visti dagli autori che li hanno creati come aberrazioni dell’umano, ma come forme più complete di esso. Per citare Blade Runner, un essere umano “più umano dell’umano”.

Grazie ad un paradossalmente fortuito incidente, così come l’iconico Peter Pan di Barrie, allevato dalle fate nei Giardini di Kensington e all’Isola che Non C’è, così anche gli eroi di Burroughs e Kipling sono divenuti una miracolosa eccezione, una stupenda anomalia nell’ordine innaturale delle cose, o meglio della società odierna. “Tutti i bambini, salvo uno, crescono”, scrive Barrie all’inizio del suo romanzo. Ed ecco il punto più cruciale che Mowgli e Tarzan rappresentano, in quanto duplice incarnazione del duplice segno dei gemelli che conferisce loro eterna fanciullezza. Così come in Peter Pan, anche qui il crescere e il divenire adulti non è necessariamente una questione di età anagrafica. Non solo, ma divenire quello che noi definiamo adulto non è un fattore né genetico né inevitabile e, soprattutto, non è una cosa naturale. Perché diventare adulto non significa altro che dimenticare quello che in noi sin dalla nascita. Certo, nella nostra società il divenire adulto è vista come un’evoluzione positiva, ma semplicemente perché la nostra società stessa ha creato dei problemi che richiedono un conseguente atteggiamento mentale adeguato per affrontarli. Ma sia quei problemi che quell’atteggiamento mentale sono e restano artificiali. Se invece il bambino si ritrova in quello che è il suo ambiente naturale, ecco che allora quelle che sono le abilità fisiche e il pieno potenziale istintivo e comunicativo che ancora si celano nell’essere umano e sono ancora incarnati in ogni bambino sbocciano ed esplodono trasformando la creatura in qualcosa di più di un semplice bambino o un semplice uomo. Egli si appropria del potere di comprendere ogni essere vivente e la natura in tutte le sue forme, impara ad assecondarne i ritmi e le forme al punto che non c’è distinzione fra lui e gli alberi o fra lui e gli animali. Egli diviene un’estensione del ramo su cui corre, forte come un orso, veloce come una pantera e pronto a sacrificarsi per il suo branco come un lupo, qualora una minaccia si presenti. Diviene una leggenda. Un eroe. Non è un caso, infatti che la tipica posizione iconografica in cui troviamo sia Tarzan che Mowgli sia quella di un bambino o di un giovane uomo seminudo appollaiato su di un ramo. Un’immagine che ancora una volta ci rimanda alla raffigurazione di Dioniso e anche del Peter Pan di Barrie, ma che soprattutto ci ricorda che la natura dell’uomo non è quella di essere ancorato a terra ma di vagare libero da vincoli in uno spazio che sta fra il cielo e la terra, così come osservato anche dal Barone Rampante di Italo Calvino. Questi sono esseri svincolati da quel decadere, spegnersi e corrompersi che è proprio di quel tipo d’uomo che è ancorato a terra dalle sue regole e dalle limitazioni culturali che gli sono state imposte in età troppo precoce perché egli potesse differenziarle da un naturale imprinting. Noi siamo naturalmente attratti dalla loro purezza così come siamo attratti verso un gruppo di bambini che gioca sulla spiaggia al tramonto, così come siamo attratti da tutto quello che ci ricorda che esiste un mondo più ampio del nostro, un mondo che, per qualche ragione che non ricordiamo, non ci risulta poi così alieno. Questi esseri fra umano ed animale, fra bambino e uomo, ci fanno da guida nella ricerca di quel sentiero tra gli alberi che ci riporta alla nostra infanzia perduta.

È questa naturale attrazione che la Disney ha sfruttato una volta e adesso torna a sfruttare. Così, anche la sua storica rivale, la Warner Brothers, sfrutta la stessa attrazione per rilanciare con un altro live action sull’altro eroe mai cresciuto della giungla, sperando di vincere l’odierna corsa al reboot cinematografico, nonché la gara per lo sfruttamento della nostalgia personale e, in questo caso, antropologica. Purtroppo però la nuova impresa cinematografica targata Disney non riesce dove il suo predecessore animato aveva trionfato, seppur coi suoi limiti e difetti, e fallisce, se non economicamente, quantomeno nel tentativo di resuscitare la vera anima e la vera purezza del bambino non contaminato dal mondo adulto.

Jon Favreau, già autore del miracoloso Iron Man, che tempo addietro diede il primo portentoso colpo di stecca al Marvel Cinematic Universe, firma una regia meccanica, ben lontana dal tocco umano o personale (che aveva in passato fatto da contrappunto alla confezione da blockbuster) e solamente concentrata sul rendimento visivo, peraltro non del tutto impressionante. Gli elementi di base ci sono tutti. Ogni personaggio è stato meticolosamente riciclato, non tanto direttamente dal romando di Kipling, ma dalla versione animata degli anni ’60. In mancanza di una troupe stellare di animatori, per questa versione live si fa appello a un cast all-star, coadiuvato ovviamente dalla tecnologia della performance capture che permette agli interpreti di essere digitalmente convertiti in animali. Bagheera, anche narratore, è interpretata dal premio Oscar Ben Kingsley, la sensualissima (anche solo nella voce) Scarlett Johannson è Kaa, Christopher Walken è un assai discutibile Re Luigi, mentre Baloo, vero cuore del film, è interpretato dal mitico Bill Murray. A completare la schiera, il talentuoso (seppur non ancora estremamente noto) Giancarlo Esposito, già super villain di Breaking Bad, è il lupo Akela mentre Idris Elba dà vita ad un notevole Shere Khan. Innegabile, dunque, il talento di questa squadra recitativa, sennonché tale schieramento di nomi è stato creato al solo scopo di attirare il maggior numero di spettatori possibile. Ad eccezione di pochi momenti divertenti che il veterano Murray riesce a ritagliarsi, l’impatto emotivo innato di questi giganti viene quasi completamente azzerato da una computer grafica che richiama arrogantemente l’attenzione su se stessa, ma fallisce nell’enfatizzare le espressioni del volto che erano state la forza del capolavoro di animazione.

Neel Sethi, il piccolo Mowgli, è il solo attore ad essere fisicamente sul set. Attorno a lui, solo un mare di schermi blu e verdi e controfigure di gommapiuma. Ne emerge un film freddo, che tenta ma stenta a espandere la storia del primo film e infine si rivela come una costosissima ma redditizia operazione nostalgica. Intenzione, questa, confermata dal fatto che, malgrado il film non sia e non voglia essere un musical, ma un film di avventura a tinte dark, la produzione ha inserito a forza ben due “numeri musicali”tratti dal primo film, quello di Re Luigi, completamente a casaccio, e quello di Baloo giustificato solo in parte.

Quanto invece al nuovo film dedicato al re della giungla di Burroughs, non ci resta che attendere il 14 luglio per avere un responso. Per ora sappiamo che l’anteprima stampa ha creato opinioni contrastanti e che il cast stellare comprende il doppio premio Oscar Christoph Waltz e l’astro nascente Margot Robbie e l’onnipresente Samuel L. Jackson. Il film è stato prodotto dalla Warner Brothers e diretto da David Yates, autore dei discutibilissimi ultimi quattro capitoli della saga di Harry Potter. Finora Yates si è confermato un regista dal dubbio impatto visivo ed emotivo, che solo occasionalmente è stato in grado di far scaturire emozioni potenti dal più che illustre materiale narrativo che gli viene sovente affidato. Ma come direbbe Galadriel, la speranza permane. Perché questi antichi archetipi sono ancora qui, nel fulcro pulsante dell’arte più popolare. Sfruttati, certo, persino deformati e replicati all’infinito, ma ancora presenti e vivi, forse, abbastanza da ricordarci la loro principale lezione e la nostra primaria natura. Il cucciolo d’uomo figlio della giungla è qualcosa di eterno, destinato ad accompagnare le generazioni future al fianco di Peter Pan o del più recente Harry Potter. Una speranza che la magia del mondo perduto che abbiamo alle spalle possa essere non solo conservata, ma espansa. Qualcosa di più del semplice “selvaggio nobile” teorizzato da Rousseau. Un essere che non è solo la naturale nobiltà dell’essere umano, ma anche la sua naturale pienezza e purezza fisica e spirituale. Un bambino nobile. Forte. E immortale.




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