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JOHN WILLIAMS - CREDERETE CHE UNA BICI POSSA VOLARE

a cura di Lorenzo Pelosini
 

L’Hollywood Bowl di Los Angeles è un oceano di luci. Non sono fiammiferi, smartphone o tantomeno stelle. Solo una miriade di spade laser agitate in segno di saluto, e di un’emozione troppo forte e specifica per essere espressa in alcun altro modo.

Il 2 Settembre di questo 2016, la leggenda vivente del cinema e della musica John Williams si esibisce in concerto nella storica arena della Mecca del Cinema. La tensione è palpabile mentre fan di vecchia e nuova data si assiepano all’entrata per onorare il celebre “Maestro of Movies”. La fila scorre. Le bancarelle ai lati vendono spade laser giocattolo. Le comprano i ragazzi e ancor di più gli adulti. Siamo a Hollywood, ed essere bambini qui è legge come a Neverland stessa. Entrando nell’arena, quello che colpisce non sono le dimensioni titaniche di quella che è senza dubbio il più celebre epicentro della musica sinfonica da cinema. Quello che colpisce è la palese palpitante personalità del pubblico che la riempie. Perché le spade laser non sono solo un giocattolo, né tantomeno un mero oggetto legato alla saga di Star Wars. In questo contesto, esse rappresentano un’energia sempre viva che stanotte brillerà nel buio a scapito del mondo a ritmo di una Forza che trascende tempo, cinema e musica.

La leggenda di John Williams, simbolo vivente del genio e della longevità acquariana, è già piuttosto antica. Ma a differenza delle sue note immortali, non altrettanto nota. Infatti, penso si possa affermare con relativa certezza che non esiste persona nata e vissuta negli ultimi 40 anni e dotata di televisione che non abbia mai udito almeno uno dei temi musicali che Williams ha composto per alcuni dei più classici film della New Hollywood. Così come si può affermare che la stragrande maggioranza di queste persone sia in grado di fischiettare uno di quei motivi senza neanche starci a pensare. La lista dei suoi lavori, anche solo di quelli più celebri e notevoli, è così vasta che si finisce sempre per tralasciarne qualcuno. Pensate solo al freddo terrore dello Squalo di Spielberg, all’eterna epica della rapsodia di Star Wars, alla fanciullesca meraviglia di Jurassic Park, all’avventura di Indiana Jones e alla magia di E.T. L’Extra Terrestre. Malgrado sono certo che queste melodie stiano adesso risuonando nella testa di chi legge, così come in quella di chi vi scrive, la persona che le ha composte non è necessariamente parte della cultura comune così come meriterebbe. E a ben vedere, suona strano ricondurre più di metà dell’eredità musicale del cinema del tardo ventesimo secolo a un solo uomo. Il motivo di questa improbabile radice comune risiede in un talento che ha saputo trascendere i generi come ogni barriera temporale finora incontrata. Un talento segnato dal Sole in Acquario, immediata radice di straordinarietà, e da una Luna visionaria in Pesci che ci parla della sua onirica sensibilità, la quale si sposa perfettamente al genio inventivo e originale del Sole acquariano.

John Towner Williams è solo un bambino di 12 anni quando viene assunto dal famoso compositore hollywoodiano Alfred Newman per entrare nell’orchestra del suo prossimo film come pianista. John è al settimo cielo. Alfred fa di più che offrirgli un lavoro, diventa una figura chiave della sua vita, donando al giovane John tutto l’affetto e la saggezza di un mentore, un affetto che, John ci confida prima del concerto, è ancora con lui a distanza di più di mezzo secolo. Il suo talento viene in seguito confermato dalle più alte istituzioni accademiche di Hollywood. Si laurea alla prestigiosa UCLA e viene in seguito ammesso alla Juilliard School, massima ambizione dei giovani musicisti di tutto il mondo. Ai suoi mentori si aggiunge il leggendario Henry Mancini, uno dei protagonisti della vecchia Hollywood, che lo assume tra i suoi assistenti compositori. A soli 26 anni compone la sua prima colonna sonora intera per il film Daddy-O ma non riceve riconoscimento ufficiale fino al film successivo Because They’re Young. Già prima di compiere 30 anni, la storia di John Williams è già scritta, ma la sua leggenda deve ancora iniziare.

Dopo una carriera come compositore di disaster movie di vario livello (fra cui spicca L’Avventura del Poseidon di Ronald Neame), è con Steven Spielberg che la magia di Williams si accende di significato. All’epoca del loro incontro, Steven Spielberg è un ragazzo di nemmeno 30 anni al quale è stato, come a John, riconosciuto un talento precoce che lo ha portato a dirigere il suo primo film per la televisione a soli 23 anni. Adesso, passato al cinema, deve dimostrare al mondo il suo talento e sperare di non essere considerato quello che in America chiamano un one-trick-pony (un cavallo capace di un solo numero memorabile, ma altrimenti inutile e presto dimenticato). Steven sa che il solo modo per evitare che ciò accada e continuare la sua ascesa è divenire memorabile, imprimersi nel cuore e non solo nella testa come un gradevole paio d’ore d’intrattenimento. Il suo talento visivo, seppur acerbo, è senza precedenti. Tuttavia, non solo esso non ha ancora trovato una strada e una sua storia da raccontare, ma il suo visivo non ha ancora trovato un contrappunto sonoro che lo eguagli.
Così come la vita, infatti, anche il cinema è fatto di matrimoni. Ma più che fra uomini e donne, questo è un matrimonio di immagine e suono. Il cinema, inteso come immagini in movimento, arriva solo fino a un certo punto e comporta notevoli limiti. Certo, le immagini sono più universali delle parole espresse in qualsivoglia lingua, ma il loro limite intrinseco resta quello di essere rappresentazioni di oggetti materiali. La musica, viceversa, nasce da un primordiale impulso all’armonia. In altre parole, le immagini cinematiche estrapolano l’emozione da un oggetto, la musica è emozione pura. Di conseguenza, il suo scopo è amplificare e creare un parallelo o un contrappunto sonoro per quell’emozione che le immagini cercano di generare. Solo da questa unione il cinema diventa tale. Un doppio assalto dei sensi che avvolge la percezione in una sorta di calda coperta che ci restituisce delle emozioni perdute o mai provate. Il problema in tutto questo è che le immagini sono appunto l’oggetto del nostro percepire cosciente mentre la musica gioca spesso sul subconscio. Questo è uno dei motivi per cui tutto il mondo conosce il nome di Steven Spielberg ma non tutti conoscono il nome di John Williams.

Un tempo si usava dire che dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande (spesso sottovalutata e meno nota) donna. Se Spielberg è stato universalmente riconosciuto come il regista più popolare del 20° Secolo, John Williams è la “grande donna” celata dietro “quel grande uomo”.
La prima tappa della loro grande unione arriva nel 1974 con Sugarland Express, una sorta di versione familiare di Bonnie e Clyde. Al suo debutto cinematografico, Spielberg è, come già detto, incredibilmente talentuoso, ma non ancora lo Spielberg dal marchio deciso che sarà in seguito. Di conseguenza, anche lo Williams di Sugarland Express non è ancora quello che finiremo per amare. Ma al di là di ogni apparente risultato, il film pianta il seme di un legame destinato a cambiare l’arte popolare. Steven e John si trovano ai due lati di uno specchio, separati dalla barriera del linguaggio diverso. Steven non sa comporre musica così come John non sa girare una scena. Eppure, sotto la superficie di quelle due manifestazioni artistiche, si cela una sensibilità e una magia la cui perfetta corrispondenza in due cuori diversi sfiora il miracoloso e si annovera di fatto fra quelle portentose unioni fra persone che in ambito romantico vengono definite anime gemelle.

La prima palese manifestazione di questa perfetta corrispondenza arriva un anno dopo con Lo Squalo. Steven non ha molti soldi a disposizione e la Universal gli ha affibbiato un goffo squalo meccanico dalle movenze imbarazzanti. Ma Steven è determinato a creare terrore. Non gli interessa con quale mezzo visivo o suggestivo, vuole che la gente abbia il terrore di entrare in acqua. Ora, per via di queste limitazioni visive, Lo Squalo è per la maggior parte un film in cui, di fatto, non si vede niente. Visivamente, Spielberg crea inquadrature e situazioni sempre sul bordo dell’abisso, dove quello che si cela sotto la superficie del quotidiano non viene mai mostrato ma solo intravisto. Forse, con uno squalo credibile, Steven avrebbe dato vita a un film su un mostro mangiauomini, ma a questo punto, non è più un mostro che gli interessa. Quello che gli interessa è il terrore per il mostro, l’archetipica paura senza nome che inghiotte l’essere umano. Non uno squalo, ma una bocca abissale (Jaws, appunto, come il titolo originale suggerisce). Ma un terrore senza nome o forma non si può portare sullo schermo senza mostrarlo. Come instillare terrore di qualcosa che di fatto le immagini evitano di svelare. Ed ecco che entra in gioco John, nel ruolo artistico che gli porterà fortuna e gloria. La musica, come già detto, non è legata a un oggetto specifico e, di conseguenza, può riferirsi ad una sensazione pura senza doverla nominare, definire o mostrare. Può saltare a piè pari lo strato superficiale della storia dove lo squalo è solo uno squalo e affondare direttamente nelle viscere dell’abisso per suggerire la verità al nostro inconscio: questo non è un film su uno squalo. È un film sulla paura. E tu stai per averne molta.

Con poche semplici note, John dà vita ad una presenza senza nome celata alla vista dall’acqua e dalla macchina da presa, una presenza fatta essenzialmente di paura e denti, qualcosa che tutti possono sentire avvicinarsi e nessuno può fare a meno di temere. Sullo schermo una ragazza sta facendo il bagno al chiaro di luna in una splendida serata. Le immagini sono morbide, il montaggio rilassato a suggerire la pace dei sensi di una giovane ragazza senza un pensiero al mondo che si gode una serata estiva della sua giovinezza. Non una traccia di inquietudine, non un segno di incombente pericolo. Ma ecco che gli archi emergono lentamente dal silenzio. Si fanno ossessivi, come un ripetuto grido di avvertimento non udito, la personificazione musicale di quel grido disperato dello spettatore che avverte la vittima appena si accorge del mostro alle sue spalle. La musica sale e subito iniziamo ad agitarci sulla sedia. C’è qualcosa che non va, non la vedo e non la sento arrivare, ma qualcosa mi dice che qualcosa ha appena aperto una breccia in questo mondo ed è affamata. La ragazza viene afferrata da quel qualcosa. Gli archi la seguono aumentando il panico di uno spettatore la cui cassandrina previsione non è servita ad evitare la tragedia, e infine cessano nel momento in cui la ragazza sparisce per sempre sotto la superficie.

Quell’estate del 1975, nessuno va al mare negli Stati Uniti, un uomo viene colto da infarto al cinema e alcuni stabilimenti balneari finiscono per chiudere.Insieme, Steven e John hanno creato una quintessenziale e multisensoriale espressione della paura. Qualcosa che supera i sensi stessi e si pianta come un permanente coltello nella parte dell’inconscio che ci ricorda che viviamo costantemente come potenziali prede di qualcosa che ancora non si è palesato.

Ma se il risultato del matrimonio artistico fra questi due grandi maestri avesse solo causato un terrore senza precedenti, questo non basterebbe comunque a giustificare la venerazione che circonda le loro creature. Perché se questi due mostri sacri ci hanno insegnato che i mostri esistono, ci hanno anche insegnato che possono essere sconfitti. Ciò è possibile per un motivo e uno soltanto: anche la magia esiste.

Dopo il primo Oscar alla colonna sonora, la collaborazione di questi due geni della lampada capaci di esaudire l’uno i desideri visivi e sonori dell’altro continua attraverso film e generi diversi. Finché Steven decide di imbarcarsi nella sua più ambiziosa e personale impresa. È la storia di un bambino e della sua amicizia con un piccolo alieno sperduto. Tecnicamente, E.T. è un film di fantascienza, con tanto di alieni, astronavi e agenti governativi senza scrupoli. Ma così come lo Squalo non è uno squalo ma il Mostro, l’archetipico Drago da sconfiggere, così E.T. è tutt’altro che un alieno. Quando i genitori del piccolo Steven stavano divorziando, lui creò un amico immaginario, un alieno per aiutarlo a superare quel momento di transizione in cui sentiva che il senso di sicurezza della sua infanzia se ne stava scivolando via. Quello che E.T. è in realtà, è il bambino interiore di ogni persona e il protettore di quella segreta magia che permette alle biciclette di volare. E.T. non tratta di alieni. Parla di cosa vuol dire lottare da soli per mantenere la luce di lampada dell’infanzia accesa mentre il resto del mondo cerca di strapparti quella luce dal cuore e convincerti che la magia non esiste affatto. Come il segno zodiacale simbolo dell’infanzia, E.T. ed Elliott sono gemelli, due pezzi della stessa persona. Nessuno dei due può vivere se l’altro non sopravvive. La sfida visiva per Steven è ovviamente rendere E.T. reale. Questa volta, ad aiutarlo c’è una schiera di collaboratori straordinari, fra cui l’effettista italiano Carlo Rambaldi che dà vita a una creatura meccanica capace di esprimere le più profonde emozioni coi suoi grandi occhi. Ma la sfida resta. E.T. può anche essere reale ai nostri occhi. Ma il credere che sia reale non equivale ancora a credere nella sua magia. Senza John Williams, E.T. sarebbe rimasto un realistico ed amabile alieno, ma il suo vero scopo sarebbe rimasto sotto terra, accessibile solo allo spettatore più attento. Come Peter Pan, E.T. è un dispensatore di magia, di una letterale e metaforica Polvere di Fata che accende di luce quello che tocca e lo fa sollevare da terra con la leggerezza di un bambino. Questa polvere non può essere raccontata visivamente, perché la Polvere di Fata non va vista, va sentita sotto pelle come il proverbiale Pensiero Felice di cui narrano le storie di Barrie. In questa occasione, per la prima vera volta, John diventa il dispensatore di quella magia, dal dito luminoso di E.T. direttamente nel cuore di ogni spettatore. Ogni volta che E.T. appare, qualcosa scatta e si scioglie dolcemente dentro di noi. Memorie sopite di giochi infantili e di antiche inconsce mitologie personali che abbiamo sviluppato naturalmente nei primi mesi della nostra vita, prima ancora di avere coscienza di cosa fossero le storie. Questo perché John è in grado di tradurre la segreta natura di E.T. direttamente in una vibrazione sonora, un tema musicale limpido e luminoso come una stella velata. Pura infanzia distillata, pura magia. Mentre il film va avanti, quelle note si infiltrano in noi, risvegliando quella concreta certezza che le cose impossibili sono impossibili solo perché gli adulti hanno deciso di renderle tali. Che forse basta battere le mani per resuscitare le fate che il mondo cerca così disperatamente di uccidere. Tutto questo germoglia in noi senza che il film ci manipoli con una sola parola. Solo tramite un viaggio sonoro che tocca le corde più intime e sopite dell’animo umano. Inoltre questa melodia non ha lo scopo di convincere lo spettatore in un banale gioco di prestigio.

Quello che la musica di John cerca di fare è prepararci al momento decisivo. Più in là nel film, come nelle nostre vite, arriverà il momento in cui osservare la magia compiersi non basterà più. Dovremmo stringere forte gli occhi e battere le mani con tutta la forza che possiamo per far sì che le fate resuscitino e le cose buone si avviino verso la strada che devono anche se questo richiederà sconfiggere la gravità. La prima volta che Elliott ed E.T. volano insieme, è E.T. stesso a far volare la bicicletta. Elliott non fa altro che godersi il viaggio. Così è per tutti noi, in quel periodo di certezze in cui la magia germoglia attorno a noi senza sforzo. Mentre la bicicletta si solleva fino alla luna, le otto memorabili note di John ci sollevano con lei senza sforzo, riportandoci a quella condizione. Ma subito dopo quella notte, il film si avventura in quella terra di confine fra infanzia ed età adulta, dove la magia si fa labile alla luce dell’alba e la luce delle fate sta per spegnersi sotto la pressione senza tatto dei non-più-bambini. E.T. è morto e la musica è morta con lui. Spetta ad Elliott stesso resuscitarlo col suo amore. “Crederò in te per tutta la vita” gli dice e il cuore luminoso dell’alieno bambino torna a battere. A quel punto, Elliott ed E.T. sono di nuovo sulla bici insieme, questa volta però sono inseguiti e circondati da una folla di adulti, questa volta E.T. è troppo debole per agire di suo conto. È allora che Steven e John uniscono le forze in una perfetta stretta visiva e musicale per lanciare un appello. Lo stesso che James Barrie lanciò al suo pubblicò un secolo fa alla prima teatrale di Peter Pan. “Se anche voi credete nelle fate, battete le mani”. Steven rallenta il tempo, scavando negli occhi terrorizzati di Elliott alla vista degli adulti coi fucili spianati a sbarrargli la strada, tutto si ferma, John raggiunge il picco di tensione musicale portandoci sulla soglia del burrone. Elliott chiude gli occhi, la nota si estende come l’istante che precede il balzo. E allora capiamo. Il film non è ancora stato scritto, non veramente. Ad un livello sottile e quasi Shroedingeriano, tutto dipende da noi. Se batteremo le mani tutti insieme e con forza sufficiente, E.T. ed Elliott si solleveranno da terra. Ma se non lo faremo, gli adulti li prenderanno e la loro corsa congiunta sarà finita per sempre. La magia e le fate spariranno per sempre da questo mondo e “quando i bambini leggeranno il libro, troveranno scritto così perì Peter Pan.” Ma la musica di John è già stata impiantata dentro di noi in quella magica notte di luna e biciclette. Capiamo che conosciamo la strada, che sappiamo come far volare quella bicicletta, che lo abbiamo sempre saputo, così come abbiamo sempre saputo che quelle note sono intimamente e perfettamente giuste. E allora, solo allora, e solo per quel motivo, quelle otto note tornano a noi, gli archi vibrano, la nostra forza attraversa lo schermo e la bicicletta si solleva.

È un momento di rapsodia che non ha eguali nella storia del cinema. Non stiamo guardando un’opera d’arte, non stiamo osservando un simbolo. Stiamo davvero volando, perché abbiamo davvero attivamente concentrato tutta la nostra volontà in un solo semplice desiderio.

Pochi anni prima, John compone le musiche per il primo film di Superman. Lo slogan sui cartelloni di tutto il mondo recita, “crederete che un uomo possa volare”. Quello a cui la scritta si riferisce è qualcosa di ben più profondo e sottile di un effetto speciale ben costruito. Allude al fatto che durante la proiezione del film, qualcosa scatterà in noi e ci porterà a credere, a credere veramente, che un uomo possa volare. E qui sta, semplicemente e meravigliosamente, la magia di John e il segreto del suo legame con Steven. Insieme, ci ricordano le cose impossibili in cui un tempo credevamo e ci tendono la mano, per intimarci a tornare all’Isola Che Non C’è per renderle possibile ancora una volta.

Sono le note di John che ci sostengono nell’aria mentre un quarantenne e disilluso Peter Pan interpretato da Robin (l’altro immortale Williams della nostra generazione) si addentra nei suoi ricordi sopiti per risvegliare il suo potere di Pan. Le nove note del tema di Hook ci riportano alla mente i ricordi più intimi, la ninna nanna di nostra madre, il suo viso, la prima volta che abbiamo guardato il cielo sapendo di poterlo raggiungere.

Allo stesso modo, sono le dolci note del tema di Jurassic Park che ci riportano ancora una volta all’“Era dei Draghi” in cui tutti abbiamo vissuto i nostri primi anni. Sussultiamo e sgraniamo gli occhi con Alan e Ellie alla vista del primo brachiosauro che si staglia nel cielo. Non perché gli effetti speciali siano mostruosamente realistici (cosa che sono), ma perché ci ricordiamo. Ci ricordiamo di quella prima volta che abbiamo sognato di vedere un drago. Un desiderio così archetipico da essere condiviso da ogni mente umana a cui è stata mai raccontata una storia. La connessione fra magia e infanzia che la musica di John esprime è così palese, che la scelta di assumerlo come compositore per la saga di Harry Potter suona come la più giusta e naturale.

Passando per capolavori sonori come Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, Shindler’s List, Mamma ho Perso l’Aereo e molti altri, il suo più grande e riconosciuto parto è senza dubbio alcuno la saga di Star Wars. Di recente, la musica che John ha composto per i sette film dedicati alla Galassia lontana lontana è stata dichiarata la più grande colonna sonora cinematografica mai creata ed è tutt’ora il pezzo di musica non commerciale più venduto di sempre. Di fatto, i produttori e i fan hanno più volte affermato che la vera anima di Star Wars non è George Lucas, ma John Williams stesso. Questo perché non c’è nessuno che comprenda l’essenza e il significato di questa favola senza tempo come l’uomo che l’ha tradotta in musica rendendola ancora più universale e del tutto immortale come solo i veri miti sanno essere.

Per questo stanotte, qui a Hollywood, la platea è un oceano di luci. Perché le spade laser hanno trasceso il loro stato di arma, di giocattolo o di simbolo. Sono diventate quella luce eterna, quella magia che John Williams ci ha intimato di tenere accesa. Attraverso tutta la nostra vita, ci ha ricordato la sua importanza, ci ha invitato a lottare per riaccenderla anche quando sembrava spenta e defunta e ci ha insegnato ad usarla per illuminare uno spazio vasto e buio e “accendere una luce di significato nell’oscurità del mero esistere”. Perché a volte credere nella magia non basta, a volte bisogna crearla, resuscitarla. E la vera magia di tutto questo è che l’eredità di John Williams è così vasta che il fuoco isolato di un singolo bambino che stringe gli occhi difronte a un schermo per far volare una bicicletta si è trasformato in un intero oceano di luci.

Stanotte questo oceano si muove all’unisono, a ritmo di una musica che trascende la musica stessa, per onorare uno dei pochi veri maghi del nostro tempo, un uomo che ci ha fatto credere nelle fate, vedere dinosauri, sconfiggere mostri e che, ancora oggi, ci fa volare.




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