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ZOOTOPIA. RITORNO AL PRESENTE

a cura di Lorenzo Pelosini
 

La Disney è da tempo immemore, e in maniera indiscussa, la portatrice di sogni della cultura occidentale. Il nome evoca istantaneamente ricordi d’infanzia in ogni generazione di essere umani attualmente in vita sul pianeta. In effetti, più di ogni altra istituzione culturale, la Disney è la singola compagnia che ha più probabilità di giocare un ruolo preponderante nella crescita e strutturazione emotiva di un giovane individuo di qualsiasi sesso.

Dalle sue origini con la rivoluzione di Biancaneve e i Sette Nani e attraverso tutte le sue fasi di caduta e rinascita, l’opera di Zio Walt e dei suoi successori ha letteralmente cambiato il mondo in ogni suo aspetto. In un’epoca in cui i cartoni erano poco più che un breve intermezzo per bambini da proiettare fra un film e l’altro, Walt Disney decise di compiere un balzo della fede e portare l’animazione al livello successivo. Dopo una serie di cortometraggi animati su base musicale che tutti conosciamo col nome di Silly Symphonies (popolari ancora oggi), Biancaneve divenne il primo lungometraggio d’animazione mai creato. L’animazione era incredibilmente fluida, il ritmo e le gag perfette e senza tempo, i personaggi risaltavano in tutta la loro unicità grazie all’espressività degli artisti della bottega di Walt. In pochi mesi, divenne chiaro che un nuovo impero stava sorgendo, un impero di animazione, favole e colori sgargianti. Presto, altri capolavori seguirono, da Pinocchio a più astratte forme d’arte visiva come Fantasia.

Nel giro di qualche anno, Walt Disney era divenuto il re di Hollywood, simbolo dei sogni e dell’immaginazione che sopravvive i traumi dell’età adulta per fiorire ancora una volta. La sua personalità e il suo fiuto per gli affari diedero vita a un parco, il primo simbolo di un mondo senza età, una tangibile Isola che Non C’è accessibile ad ogni età e ad un prezzo ragionevole, un luogo di magia che chiamò Disneyland. Con la sua nascita divenne ancora più lampante come la Disney si fosse ormai imposta come qualcosa di ben più ampio di una casa di produzione: era un modo di pensare, o meglio, un modo di sognare. Favola dopo favola, questo impero nascente continuò ad apporre la sua firma sulle antiche storie, ingerendole e rigurgitandole in una nuova forma. Fu solo alla fine degli anni ’60 che, alla morte del grande genio, la Disney si trovò di fronte a un momento di caduta. Le favole sembravano improvvisamente terminate, così come l’interesse della gente in esse. L’animazione non cessò mai di sperimentare nuove forme, ma fu solo alla fine degli anni ’80, con film come La Sirenetta e con l’astro nascente dell’animazione Andreas Deja che la Disney tornò agli antichi fasti dando vita alla cosiddetta era della Disney Renaissance.

Seguirono una serie miracolosa di capolavori, dalla Bella e la Bestia, ad Aladdin, a Il Re Leone. Ma alla fine degli anni ’90, la magia della Disney sembrò arrestarsi ancora una volta. Mentre la Pixar accresceva la sua capacità di narrare nuove favole contemporanee per un pubblico più adulto, la vecchia Disney perdeva contatto con quella famiglia di adepti che essa stessa aveva cresciuto, creando film che, uno dopo l’altro, fallivano nel tentativo di connettersi con gusto e le aspirazioni della generazione dei millennials. Malgrado i ripetuti tentativi di John Lassiter, successore del buon zio Walt, di resuscitare la favola tradizionale con film come La Principessa e il Ranocchio, la Disney continuò la sua lenta scivolata. Alla fine, il successo tornò a farsi sentire quando la Disney creò un ibrido fra la moderna frizzantezza dell’approccio digitale e scanzonato tipico della Pixar con la tradizionale favola in animazione bidimensionale. Film come Rapunzel e Frozen riportavano il mondo delle principesse nell’era moderna con un uso del digitale che puntava a imitare ed espandere lo stile dell’animazione a matita. Malgrado ciò, il richiamo verso le glorie passate, la nostalgia per una grandezza classica ormai perduta continua tuttora a infestare la Disney come un fantasma. Al momento, i più grandi introiti della compagnia non solo derivano da favole relativamente classiche come Rapunzel, ma si basano su remake live-action dei più grandi successi di animazione. Da Maleficent, a Cenerentola, al Libro della Giungla fino all’attesissimo La Bella e la Bestia con Emma Watson, la Disney gioca sul sicuro, abbinando al potere delle star il potere della passata magia della vecchia animazione. In questa decade di ritorno al passato, per quanto economicamente redditizio nel breve periodo, viene sovente da chiedersi cosa il futuro abbia in serbo per la Disney. O meglio, cosa la Disney abbia in serbo per il futuro.

Quando i poster e le gigantografie di Zootopia hanno iniziato a tempestare i muri dei palazzi di Downtown e le fiancate di tutti gli autobus di Los Angeles questa primavera, due cose erano estremamente chiare: la prima è che la Disney era pronta a lanciare sul mercato un nuovo mastodontico prodotto per tutta la famiglia. La seconda è che tale prodotto si sarebbe aggiudicato l’amore dei bambini con una valanga di adorabili animaletti antropomorfi dagli occhi grandi. E apparentemente poco altro. Infatti, per quanto la percezione soggettiva giochi un ruolo preponderante nella questione, la campagna pubblicitaria per Zootopia, si mostrava come distaccata dalla storia e dai temi che il film avrebbe trattato, e focalizzata soltanto sull’amabile apparenza dei personaggi principali e secondari. I volti della coniglietta poliziotto e della sua malandrina controparte volpe si limitavano a lanciarsi sguardi ammiccanti in ogni cartellone e spot pubblicitario. Quello che si riusciva ad intuire, oltre alla chimica (forse romantica, forse platonica) fra i due, era che la storia sarebbe stata una forma di police-procedural, ovvero una trama relativa al lavoro di alcuni agenti di polizia occupati a fronteggiare una forma di criminalità locale. Tuttavia, data la costante enfasi sulla varietà di animali mostrata negli spot, era logico ritenere che la trama poliziesca sarebbe stata solo una scusa per esplorare le varie razze di animali che gli animatori avevano creato. In breve, Zootopia si presentava al mondo più come un vero e proprio variopinto zoo, piuttosto che come un film. Questo rimandava palesemente alla tecnica usata per Il Libro della Giungla del 1967, prima avvisaglia della prima decadenza narrativa della Disney. In quel film, la storia era quasi del tutto inesistente, quasi una serie di episodi indipendenti che portavano Mowgli da un animale animato all’altro in una serie di numeri musicali. Il risultato era una straordinaria catena di animazioni fra le migliori mai create dalla Disney e una storia dal grande potenziale quasi completamente inespresso. Inoltre, l’apparenza del coprotagonista volpe Nick Wilde, dall’espressione del volto ai colori della pelliccia e dei vestiti, rimandavano palesemente al primo e unico grande successo della Disney nel campo dei film basati interamente su una società di animali antropomorfizzati: Robin Hood. In quel primo caso, l’utilizzo di un mondo civilizzato composto da animali all’interno di un adattamento di una storia preesistente era in buona parte gratuito, per quanto godibile. Principalmente puntato ad attirare i bambini e a limitare l’animazione della figura umana (assai più complessa e di gran lunga meno popolare), l’uso degli animali veniva comunque sfruttato per enfatizzare i caratteri dei personaggi. Un leone gracile che vuole essere re, una volpe che usa l’astuzia per fermarlo, una famiglia di topolini nullatenenti calpestata da i più forti e un consigliere di corte viscido come un serpente. Il film è nel complesso un prodotto straordinario, dalla carica emotiva eccezionale, che mantiene tutt’oggi il suo posto nel cuore di molti adulti. Tuttavia, l’uso degli animali sfruttava lo stereotipo ad essi associato, anziché giocare con esso. La volpe è astuta, il leone è ambizioso, il serpente è un manipolatore, i conigli sono indifesi e in generale, la legge della giungla mantiene la sua gerarchia e le sue regole. Date queste connessioni, è estremamente facile sviluppare un pregiudizio nei confronti di un film che sembra palesemente rifarsi a questi illustri predecessori. Tuttavia, è ironico come, fra tutti i prodotti Disney avvicendatisi negli anni, il pregiudizio di chi vi scrive si sia indirizzato proprio su Zootopia. La verità è che l’ultima fatica della fabbrica dei sogni di Zio Walt è uno dei film più intelligenti e profondi sfornati dall’animazione contemporanea. Ancor più ironicamente, è proprio del pregiudizio che Zootopia parla.

La prima ispirazione per la storia deriva in effetti dall’idea del co-regista Byron Howard, il cui intento era sviluppare un film simile a Robin Hood. Tuttavia, qui scatta la prima fondamentale differenza che, in seguito, avrebbe creato tutte le altre straordinarie eccezioni di cui Zootopia è costellato. I personaggi animali non avrebbero vissuto in mezzo alla natura come nel Re Leone o semplicemente in una replica del mondo umano civilizzato come in Robin Hood. Questa volta, l’intera società, seppur simile alla nostra, sarebbe sorta ed evoluta per adattarsi alle esigenze di tutti i mammiferi. Infatti, la megalopoli Zootopia che dà il nome al film non è una semplice versione alternativa di New York o Los Angeles, e popolata senza alcun motivo da animali anziché da homo sapiens. La società di questo mondo parallelo si è sviluppata dalle sue origini per far sì che tutte le razze di animali potessero convivere. Ci sono quartieri in miniatura per roditori di piccola taglia, interi distretti tenuti sottozero o in una cupola di clima tropicale per orsi polari e lemuri. In breve, il mondo di Zootopia non è un mondo umano inconsapevolmente popolato da animali al solo scopo di rendere la storia visivamente divertente per i bambini. È un mondo in cui tutte le razze di mammiferi hanno preso coscienza di loro stesse e si sono evolute all’unisono creando una società di leggi e regole, un’utopia in cui prede e predatori devono imparare a convivere con i propri istinti e con le differenze fra l’uno e l’altro. Un’utopia, certo, ma un’utopia cosciente della propria fragilità.

I riferimenti alle barriere razziali e ai difficili equilibri etnici che le grandi città devono affrontare su base quotidiana sono già evidenti dalle premesse. E si fanno più e più stratificati man mano che la storia procede. Nella prima stesura, il film doveva essere una sorta di film di spionaggio dove il protagonista maschile clone di James Bond avrebbe svelato una cospirazione internazionale. La seconda stesura era ancora basata sul protagonista maschile Wilde, che stavolta era un poliziotto che investigava sui distretti di Zootopia. Ma è solo con la terza stesura che il film tocca nodi narrativi coraggiosi e inesplorati.

Nella terza e definitiva versione, il protagonista è una piccola coniglietta femmina di nome Judy Hopps, che giunge a Zootopia dalla campagna con l’aspirazione di diventare un poliziotto. Con questa scelta, Judy si presenta come la perfetta fusione e metafora di tutte le forme di svantaggio sociale che la nostra società ha creato nel corso dei secoli. Prima di tutto, Judy viene dalla quieta provincia, una giovane ragazza fresca di studi che si trova immersa in un mondo pieno di isolamento sociale, persone che ricambiano la gentilezza con maniere grette e persino violente a cui Judy non è abituata. Inoltre, Judy è un coniglio, un animale biologicamente inadatto al combattimento e per questo sovente rifiutato alle selezioni per l’accademia. Judy è infatti fieramente la prima agente di polizia coniglio della storia di Zootopia. Questo fattore non solo è metafora di una discriminazione razziale (i conigli non amano essere definiti “carini” da persone non appartenenti alla loro etnia), ma rinforza l’ultima categoria discriminata di cui Judy fa parte, in aggiunta alla gioventù di provincia e al gruppo etnico discriminato per l’aspetto estetico: le donne. Judy è una giovane donna ricolma di una bilancina forza di volontà puntata a risolvere le ingiustizie del mondo e l’abuso di potere dei più forti, una volontà intrappolata in un corpo esile e dotato di minore forza fisica rispetto ai criminali che dovrebbe affrontare. Per questo Judy passa tutta la vita ad allenarsi, lavorando sull’agilità propria dei conigli, cercando di usare le sue abilità fisiche e mentali per eguagliare e persino superare in efficienza i suoi colleghi maschi. Judy diviene via via più cosciente della discriminazione razziale e sessuale in atto in quel mondo che, dall’esterno, si mostrava come una società perfetta. Eppure non si perde di entusiasmo. Né si abbandona al cinismo, quando si accorge che una volpe di nome Nick Wilde (le volpi sono razzialmente giudicate ladre) ha sfruttato proprio la sua assenza di pregiudizio razziale per raggirarla. Apparentemente, Nick è il contrappunto arietino aggressivo e impulsivo di Judy, una palese Bilancia ossessionata dall’ordine e dal rettificare le ingiustizie in maniera quasi maniacale. Lei una preda, lui un predatore, lei poliziotto, lui ladro di professione. Ma la loro interazione svelerà una natura ben più complessa su entrambi i lati di questa relazione tra opposti.

Obbligata a sfruttare la sua conoscenza per risolvere il caso che le è stato affidato Judy scoprirà il vero motivo dell’atteggiamento di Nick è dovuto a un trauma infantile. Nell’infanzia Judy era stata bullizzata e sfregiata da un predatore maschio più grosso di lei. La sua reazione era stata che lei non si sarebbe mai rassegnata ad essere una preda o una vittima, avrebbe combattuto i più forti e la loro arroganza in ogni ambito. Contrariamente a lei, Nick è nato predatore. Da piccolo, il suo sogno era entrare nel gruppo dei boy scout, composto per tradizione solo da animali erbivori. Alla prima riunione, Nick viene immobilizzato, mentre tutto il gruppo degli scout si china su di lui per infilargli una museruola. In preda al terrore e alla vergogna per la sua stessa condizione, Nick si precipita fuori piangendo. La scena è emotivamente straziante, affatto edulcorata, crudele e capace di spezzare il cuore di un bambino come quello di un adulto. Non c’è buonismo o attenuazione della violenza fisica o emotiva. Anzi, lo stupro simbolico subito da Judy e Nick, il senso di impotenza e impossibilità di sfuggire alla propria natura è esplicito e terrificante. Anche quando si decide di superare i nostri istinti e divenire qualcosa di più di noi stessi, il resto del mondo continuerà a vedere soltanto quello che siamo in superficie. Il mondo vedrà sempre e solo una volpe, un coniglio, un criminale, una donna.

Questa corda emotiva e sociale è forse il tratto più sensibile dell’America e della società occidentale contemporanea. Complici le prime elezioni presidenziali a sesso misto e gli episodi di discriminazione razziale legati ai discorsi pubblici di Donald Trump, il 2016 è un anno di estreme tensioni sociali, in cui la Disney, più che mai, prende una posizione decisa. Eppure, quest’industria multimiliardaria è una società ormai storica, che ha fatto la sua fortuna concentrandosi sullo sviluppo di prodotti per bambini, sulla creazione di sogni per un giovane pubblico, un mondo di bene e male accuratamente separati e ben definiti da colori e forme. Un mondo di certezza, dove il conflitto è non solo palese, ma facilmente risolvibile. La Disney, più di ogni altra istituzione artistica, è partecipe almeno quanto un genitore nel procurare la sicurezza emotiva necessaria a un giovane individuo in via di sviluppo. Per questo motivo, anche quando il film Disney hanno fatto eco ad un evento o tensione sociale del presente, questo conflitto era immediatamente edulcorato e traslato in un mondo favolistico, dove la più complessa struttura sociale possibile è un re malvagio che ha usurpato il trono del re buono che regnava di diritto. Ma Zootopia, malgrado il nome e l’apparenza, non è un’utopia e tantomeno una favola o un nostalgico ritorno a un passato più semplice. Questo non è uno specchio addolcito del mondo, colorato per bambini con l’ausilio di animali carini simili a peluche. Questo è un riflesso diretto e inclemente del nostro presente, delle nostre città, del nostro modo di pensare. Un riflesso reso, non meno, bensì ancor più esplicito dall’uso narrativo delle razze animali. Di fatto, il genio di Zootopia sta nella sua universalità e nella scelta di un linguaggio visivo e narrativo così semplice e al contempo profondo che è capace di fare contemporaneamente appello al bambino così come all’adulto. Anzi, potremmo dire che Zootopia non tratta i bambini come adulti, bensì gli adulti come bambini. Ci riporta ad una condizione elementare, per mostrarci sia l’assurdità dei conflitti sociali di cui siamo preda, sia la facilità con cui a volte, preda dei nostri istinti sociali ancora infantili, cadiamo nelle trappole di un giudizio affrettato.

Infatti, in un geniale colpo di coda, Zootopia si lancia in un ultimo atto a sorpresa dopo la risoluzione di quello che sembrava essere il conflitto finale. Judy e Nick passano infatti gran parte del film a cercare di scoprire come mai alcuni animali stiano regredendo allo stato selvaggio senza un motivo apparente, aggredendo i propri concittadini senza preavviso. Alla fine, Judy e Nick individuano tutti gli animali retrocessi allo stato selvaggio in un laboratorio di ricerca gestito dal sindaco Lionheart, un leone stereotipicamente all’apice della catena alimentare del potere. Malgrado accusato di detenzione illegale di individui, il sindaco va in prigione dichiarandosi innocente e affermando di voler curare gli animali imbestialiti. Infatti, alla fine del film, la causa della regressione resta ignota. In assenza di prove, Judy afferma pubblicamente che, dato che solo i predatori sembrano regredire, questo potrebbe essere dovuto a un fattore genetico. Questo scatena un’istantanea esplosione di razzismo in tutta la città, dove le prede costituiscono il 90% della popolazione. Come se il personaggio di Judy non fosse già abbastanza sfaccettato e il ritratto sociale altrettanto profondo, la biologia animale si fa specchio del pregiudizio nella sua totalità. Quello di Judy è infatti un apparentemente legittimo pregiudizio sulla natura aggressiva dei predatori. È così che la nostra protagonista, simbolo del superamento del pregiudizio, diventa l’icona della nascita del vero razzismo a Zootopia.

Ancora una volta, Judy e Nick sembrano letteralmente intrappolati nei loro corpi, incapaci di iniziare la loro storia insieme per via delle loro differenze biologiche, aggiungendo ai temi anche quello delle coppie interraziali e, se vogliamo, anche di quelle omosessuali. In un’ultima ondata di realismo al confine col totale cinismo, questo film coraggioso ci ricorda che perfino quelli che hanno subito il pregiudizio sono facilmente preda del pregiudizio a loro volta, quando si tratta di giudicare la categoria di persone che li ha discriminati in primo luogo. Judy ha risolto il caso grazie a Nick, un predatore, sì, e anche l’unica persona che ama davvero e con cui ha un vero rapporto personale in quella città individualista. Ma Judy deve la formazione della sua persona al suo trauma d’infanzia dove un predatore l’ha spinta a terra e artigliata al volto. Nel punto più profondo del suo subconscio, anche lei è preda dell’istinto animalesco primordiale, così come i predatori regrediti. Nel punto più profondo di se stessa, lei è ancora una preda, ha ancora paura. E malgrado il cuore possa dirle altrimenti, i predatori sono ancora il nemico.

Il solo modo per risolvere un conflitto così profondo, che risale alla radice dell’identità situata nell’inconscio, è ripercorrere i propri passi e la propria evoluzione, da animale a creatura sociale, da bambino a adulto. Judy torna a casa e si confronta ancora una volta con la sua infanzia. Solo allora la risposta la colpisce come un fulmine. In questa epica conclusione e secondo colpo di scena (allerta spoiler!) risiede il cuore speranzoso, ma affatto buonista di Zootopia. I predatori non sono violenti per natura. Sia loro che gli erbivori hanno da tempo messo da parte la loro natura subconscia. Questa è la parte buona, ma ahimè, la faccenda è più complessa. Perché quegli istinti sono ancora presenti sia nei predatori che nelle prede, e può essere risvegliata da alcune sostanze oppiacee che crescono in natura. Tramite esse, chiunque può manipolare l’opinione sociale decidendo di far regredire un gruppo o l’altro. Ironicamente, è la segretaria del sindaco, una apparentemente innocua e docile pecora di mezza età, ad avere architettato il piano, per poter assicurare la supremazia delle prede, più grandi in numero ma più deboli per natura. La sua rivelazione come vero villain del film rovescia ancora una volta gli stereotipi sulle razze animali usate finora nell’animazione. Nell’epilogo, la pecora infetta Nick con la sostanza intossicante portandolo ad assalire Judy. In un normale film Disney ci aspetteremmo che l’amore di Nick per Judy sia così forte da fargli superare il suo istinto animale. Ma non è così. Il solo motivo per cui il film non finisce con la tragica morte di Judy sgozzata e mangiata viva dalla persona che ama, è perché lei stessa ha sostituito la sostanza intossicante con una innocua nella scena precedente.

Il film termina quindi con l’obbligatoria conclusione positiva in stile Disney. I cattivi vengono portati alla giustizia e l’amore e l’amicizia trionfano. Tuttavia, questo lieto fine non risulta artificioso.
Perché malgrado questo film ci mostri che il pregiudizio può essere superato, ci ricorda anche che, per quanto viviamo da secoli in una società di leggi e regole imposte dall’alto, i nostri istinti primordiali di paura e diffidenza sono sempre in agguato. Possono irrompere come una febbre in ogni momento, accecando la nostra mente razionale ancora giovane e trasformando una società ancora timidamente progressista nella giungla da cui proviene. Il solo modo per prevenire tutto questo non è l’annullamento di quegli istinti, che siamo destinati a portare con noi come un bagaglio evolutivo, ma la costante autoanalisi dei motivi e delle radici profonde che influenzano i nostri pensieri e le nostre azioni. Quella radice sono i conflitti individuali che abbiamo avuto nella vita con singoli individui che a loro volta si comportavano in un certo modo mossi da una paura più grande della loro stessa singola volontà. Sono questi conflitti che creano in noi il terrore che conduce alla generalizzazione. Ed è quel terrore che crea una barriera tra noi e gli altri, una barriera che ha origini così antiche da sembrare naturale. Essere preda di quella barriera, ci rende vittime di noi stessi. Perché più del predatore, è la paura di esso che ci rende prede. Per comportarci da esseri umani, dobbiamo prima accettare la nostra natura animale e decidere di superarla. In nome non di una natura, ma di una scelta.

Se dopo tutti questi decenni, dopo tutte le sue cadute e le sue codarde ritirate nella comoda nostalgia, la Disney è ancora in grado di mostrarci il lato più oscuro del nostro presente e farci sorridere speranzosi riguardo al nostro futuro, forse, sotto l’estrema devozione al profitto e alla sicurezza narrativa, il vero cuore della bottega di Zio Walt è ancora vivo, perfino più adulto e capace di portare speranza e sogni anche e soprattutto dove la realtà fa più male.




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