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OSCAR 2018. VOCE AGLI OPPRESSI

a cura di Lorenzo Pelosini
 

Gli Oscar sono da sempre noti per il loro tratto conservatore. Scavate indietro di qualche decennio, o anche solo di qualche anno, e noterete che i film che hanno cambiato il mondo e letteralmente fatto la Storia sono stati ignorati o marginalmente considerati. Viceversa, sono spesso i film di stampo palesemente storico/sociale quelli che si accaparrano la statuetta del Miglior Film, che è ovviamente la più ambita. Se decostruiamo questi fatti, emerge un paradosso piuttosto ironico. Infatti, sono i film più controversi che si assumono l’arduo compito di sviscerare le tematiche contemporanee davvero complesse. Mentre, molto spesso, i cosiddetti film di stampo storico/sociale non fanno che confermare controversie sociali già affrontate. Di fatto, si crea un conflitto fra il desiderio di spronare il cambiamento e la tendenza a premiare il tradizionalismo.

Uno degli esempi più eclatanti sono gli Oscar del 1982, uno degli anni migliori della cinematografia Hollywoodiana postmoderna. Tre dei più grandi autori dell’epoca, avevano afferrato il genere di fantascienza e lo avevano riempito delle più grandi domande, dei più grandi terrori e delle più grandi speranze. Rispettivamente, Blade Runner (R. Scott), La Cosa (J. Carpenter) e E.T. L’Extra-Terrestre (S. Spielberg). Non solo questi film sono forse il capolavoro di ognuno di questi maestri, ma sono impregnati delle tematiche più universali. Blade Runner è forse il trattato filosofico più importante della cinematografia moderna sulla definizione di concetti come Umano, Diverso, Schiavismo e Diritto alla Vita. La Cosacrea un incubo partendo dalla diffidenza verso il prossimo. Mentre E.T. rivoluziona il tema Dickensiano dei bambini indifesi, riscoperti come i veri e unici esseri umani in un mondo che tenta di sopprimerne la magia. Alcuni di questi film come Blade Runner, ricevettero delle nomination e E.T. riuscì ad accaparrarsi degli oscar tecnici e uno per l’indimenticabile colonna sonora di John Williams. Ma fu Gandhi a portarsi a casa la statuetta di Miglior Film. Ora, la grandezza e l’assoluta importanza storica della persona di Gandhi è incommensurabile. Tuttavia, il film di R. Attemborough non è che una comunissima biografia ben eseguita, forte solo e soltanto del soggetto storico e dell’interpretazione di Ben Kingsley. In breve, è stata la persona di Gandhi ad aver cambiato il mondo, mentre il film a lui dedicato è stato premiato e presto dimenticato. Viceversa, E.T. è il film che, nel 1982, ha cambiato quantomeno il modo di vedere il mondo.

A pochi giorni dalla 90esima notte degli Oscar, la domanda che dobbiamo porci come spettatori è la stessa che l’Accademy da anni ha difficoltà persino a formulare. Conosciamo già gli eventi che hanno cambiato la Storia. Ma quale film, di qui a dieci anni, cambierà il mondo? Qual è il moderno E.T. e qual è il moderno Gandhi? Come ho già detto, l’Accademy è un’istituzione conservatrice. Apprezza l’impegno sociale quando esso tratta di eventi già avvenuti e nota con fatica i grandi temi quando essi si rivestono di fantascienza e fantasy. Non dimentichiamo che Spielberg stesso, il maestro della favola moderna, ha dovuto ricorrere ai film storici per ottenere i suoi meritati Oscar. Malgrado questi precedenti, pare proprio che quest’anno ci troviamo difronte ad una situazione atipica, forse persino un cambiamento significativo ed opposto alla tradizione. Questo lo si deve per lo più alla presenza di specifiche nomination, fra cui The Shape of Water e Get Out. Ma facciamo la conta dei presenti. Noteremo che i candidati al Miglior Film del 2018 sono un interessantissimo miscuglio.

Partiamo dal più “puro” di essi, una nomination quasi d’obbligo: L’Ora più Buia. Si tratta di un biopic, ovvero la biografia di un personaggio storico famoso, portata sullo schermo nella maniera più epica possibile. In questo caso, abbiamo un Winston Churchill in piena lotta contro l’oscurità che attanaglia l’Europa durante il conflitto mondiale. Nell’opera in sé, per quanto ben girata ed emotivamente coinvolgente, non v’è nulla di mai visto. La sola eccezione è la quasi miracolosa performance di quello che è forse l’attore grandioso più sottovalutato degli ultimi vent’anni. Gary Oldman è stato un interprete di serie A, e un trasformista fino ai limiti dell’immaginabile. Eppure, a tutt’oggi, non ha collezionato più di due misere nomination con i suoi lavori. Ciò lo si deve per lo più alla tendenza già menzionata dell’Accademy di premiare il film impegnati e realistici. Oldman è da sempre un istrione, che si bea degli eccessi dei film commerciali e non ha remore a interpretare villain e personaggi dalla spiccata teatralità. Questo ha finora giocato a suo sfavore. Ma ecco qui il genio di questo film e la sua importanza storica nelle nomination. Gary Oldman ha qui una triplice occasione. Da un lato, lo vediamo calarsi nei rari panni di un personaggio storico, il genere da sempre preferito dall’Accademy. Nello specifico, tale personaggio, Churchill, è ben noto per la sua personalità eccentrica ai limiti del teatrale parossismo, il che porta Oldman ancora più in vantaggio. Ultimo ma non meno importante, Oldman ha un fisico asciutto e un’apparenza del tutto diversa dal rubicondo leader britannico. Un’occasione d’oro per esibirsi nel suo più spettacolare trasformismo. La concorrenza di questi tre fattori, senza contare l’assoluta eccellenza della performance di Oldman (che ci offre come sempre un dolore onesto e coinvolgente), potrebbero portare l’attore britannico verso un premio a lungo atteso e certamente meritato.

A ruota troviamo Dunkirk. Anche in questo caso, abbiamo un’opera pura, un film di guerra che non lesina sulla spettacolarità ed è ben memore del suo precedente Spielbergiano (Salvate il Soldato Ryan).  L’elemento di novità qui è di nuovo uno solo, il regista Christopher Nolan. Come Spielberg prima di lui, il regista/sceneggiatore soffre dell’aver fatto dell’arte tramite film commerciali. Neppure l’acclamato Cavaliere Oscuro riuscì a garantirgli una nomination alla regia. Stavolta, Nolan si lancia sullo storico e punta dritto alla statuetta. La strategia non potrebbe essere più perfetta, se non fosse per il fatto che quest’anno ci sono troppi agguerriti canditati rispetto alla media.

Anche Il Filo Nascosto lavora con lo stesso schema. Il regista Paul Thomas Anderson non è nuovo alle nomination ed è noto per il suo tratto autoriale drammatico e per la fruttuosa collaborazione col grande veterano Daniel Day-Lewis. Anche qui troviamo un artista affamato di meritata statuetta. Come gli altri suoi lavori, anche Il Filo Nascosto è un film dalla difficile definizione di genere, con una narrazione complessa incentrata attorno a un personaggio enigmatico. Ma il punto di forza su cui punta Anderson è stavolta la dichiarazione di Lewis di abbandonare la recitazione dopo questo film. Non sempre veritieri, annunci del genere sono sempre un’ottima pubblicità. Il problema qui giace nel fatto che Daniel Day-Lewis ha già vinto tre Oscar da protagonista, il massimo storico finora raggiunto. Non solo Lewis è quasi sicuramente destinato a perdere, ma anche Anderson non brilla stavolta di novità rispetto ai suoi precedenti lavori (o ai suoi concorrenti).

Con Tre Manifesti a Ebbing, Missouri entriamo in un territorio più interessante. La campagna elettorale sembra puntare in questo caso a un classico film d’autore a stampo sociale. Ma anziché una vecchia battaglia, il film mostra conflitti presenti e un’autentica ambivalenza. È una storia di violenza e razzismo, dove il buonismo Hollywoodiano è un assente totale. I personaggi sono talmente stratificati, che in loro convivono umanità ed estremismo. Secondo molti critici, sarebbe proprio questo il candidato favorito per il Miglior Film.

Tuttavia, c’è un altro grande protagonista che quest’anno gioca sulla stessa complessità dei personaggi e del contesto sociale. L’ultima fatica del “Re di Hollywood” Steven Spielberg, The Post, è per certi versi una riscoperta dell’umanità a lui tanto cara. All’apparenza, il film è l’ennesimo ritratto di un’epoca storica significativa, l’ennesimo film che, come Gandhi, tratta di un conflitto già avvenuto e superato. Ma non appena ci si affaccia al secondo tempo, ci accorgiamo che quella di Spielberg è solo una maschera. Il film non tratta di Nixon contro un editoriale, né si tratta soltanto di un’allegoria alla lotta contro le fake news di Trump che sarà centrale nei prossimi anni. Al contrario, è una rivelazione quasi inedita dell’orrore che si cela dietro a quel potere che giura onestà alle masse. Inoltre, la battaglia che Spielberg ritrae non è storica perché il modo in cui è narrata la rende eterna e quasi esistenziale. Non è solo la lotta dell’individuo contro il sistema, è anche la lotta di due voci contrastanti nel cuore dell’essere umano comune. Non ci sono eroi epici in questo film, non ci sono predestinati o puri di cuore. Meryl Streep non è la classica “Mary Sue”, ovvero un personaggio femminile forte e senza difetti atto a rappresentare un femminismo falso e buonista. Al contrario, è una donna che ha fatto molti errori assecondando lo status quo, una persona che ha tutto da perdere e pochissimo da guadagnare da un’azione coraggiosa alla quale il suo cuore non è abituato. Per certi versi, la forza di questo film si condensa in un primo piano stretto ed intenso, e nella frase della Streep che tremante dichiara: “Ok… ok, pubblichiamolo!” Certo, Spielberg non è tra i favoriti, visto che ha già tre Oscar al suo attivo. Ma non è escluso che Meryl Streep riesca a strappare una quarta statuetta (un evento che sarebbe, nel qual caso, senza precedenti storici).

A giocare un’altra ambivalente e complessa partita, stavolta sospesa tra dramma e commedia, troviamo Greta Gerwig. Il suo ultimo film Lady Bird è una di quelle opere quasi perfette e paradossali, dove leggerezza e spessore coesistono e si rafforzano l’un l’altra. Anche qui, la battaglia femminista va avanti nella maniera più soave, ritraendo un rapporto madre-figlia e la ricerca di un ruolo e un’identità in un mondo senza risposte certe.

E parlando di assenza di risposte certe, ecco un’altra grande sorpresa di questa edizione. La presenza tra i candidati di Chiamami col tuo Nome. Dopo anni, ecco che l’Italia torna alla ribalta, portandosi fra i candidati a Miglior Film ma, ironia della sorte, non al Miglior Film Straniero. Non solo questo film rappresenta la possibile rivalsa di un Bel Paese dimentico e dimenticato dal grande cinema, ma è un bellissimo ritratto dell’amore giovanile in tutta la sua incertezza.

Ora, questi sono tutti film a loro modo straordinari e rilevanti. Tuttavia, è parere di chi vi scrive che nessuno di essi abbia la forza rivoluzionaria di cambiare il presente in maniera significativa. Per quanto l’abilità di Spielberg di mostrare la fragilità umana sia particolarmente ammirevole, The Post non ha certo la portata sconvolgente di E.T. o di altri suoi film. In termini di novità, la scelta si riduce a due quantomeno bizzarre pellicole. La prima è Get Out. Lontano dall’essere un film perfetto o il capolavoro che molti affermano per motivi di politica sociale, esso resta un’opera di un’originalità esilarante e agghiacciante. La storia e il tono sono in pratica una matrioska di commedia romantica, commedia sociale, dramma sociale e puro horror complottista. Inizia come Indovina Chi Viene a Cena e quasi finisce per diventare Rosemary’s Baby. In sostanza, è un film che sorprende ad ogni scena, e offre un ritratto sociale contemporaneo che fa pensare senza però divenire retorico.

Infine, troviamo quello che è senza dubbio il mio personale favorito: La Forma dell’Acqua -The Shape of Water di Guillermo del Toro. Il regista Messicano è famoso per la sua assoluta peculiarità e per la sua incapacità di collocarsi fra i registi commerciali o fra gli autori. In questo, Del Toro non è diverso dai suoi personaggi: un mostro ibrido, incapace di integrarsi e capace solo di totale onestà verso se stesso e la sua natura, così sfuggevole agli altri. E in effetti, La Forma dell’Acqua è, se non il più bel film dell’anno, senz’altro l’ibrido più affascinante e significativo. L’anima della storia è appunto quella di E.T., una favola che parla di un rapporto quasi impossibile fra umano e non umano, una fuga dall’oppressione del mondo conformista e un desiderio di liberare un simbolo di purezza da quelli che vogliono sfruttarlo. Ma c’è molto di più. Ogni personaggio del film rappresenta una minoranza bistrattata. Abbiamo una protagonista affetta da mutismo, un vecchio omosessuale condannato alla solitudine, una donna di colore maltrattata da tutti e persino una spia Russa in territorio nemico. Ma il vero genio sta ancora una volta nel realismo psicologico, qui ancora più notevole che negli altri candidati. Se tutti i film storico-sociali finiscono per ribadire semplicemente gli errori commessi in un certo periodo dall’alto di un facile relativismo storico, Shape of Water pone delle vere domande su dove si traccia la linea tra umano e non umano. Perfino i protagonisti emarginati hanno i loro dubbi se trattare la creatura acquatica come un uomo o come un animale. Sono, insomma, affetti dallo stesso dubbio che crea odio e diffidenza nei loro confronti. Gli occorrerà una tremenda e quasi impossibile presa di coscienza per fare la scelta veramente giusta. Insomma, non solo Shape of Water ha la pura bellezza di una favola senza tempo, ma tratta i più profondi temi sociali con un’universalità e una profondità senza alcun tipo di precedente nel cinema delle ultime decadi, paragonabile forse solo al magnifico relativismo di Flatlandia di Edwin Abbott Abbott.

Come sempre, è difficile capire quale di questi candidati vincerà quest’anno, e quale sarà il vero motore del cambiamento nei prossimi anni. Se gli Oscar sono spesso retrogradi, sono sempre i film acquariani che pensano fuori dagli schemi e pongono domande veramente scomode quelli che, nel tempo, si affermano come piccoli miracoli e finiscono per ispirare miracoli a loro volta.




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