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THE SHAPE OF WATER. PRÌNCIPI, PRINCÌPI E PRINCIPESSE DELLA SOVVERSIONE

a cura di Lorenzo Pelosini
 

È un periodo teso qui a Hollywood, California. Da un lato, la presidenza Trump ha acceso nei democratici una, per così dire, profonda fobia per la xenofobia. Dall’altro, i recenti scandali che hanno visto protagonista l’ex re di Hollywood Harvey Weinstein, hanno portato un’estrema rivalutazione del modo di approcciare le minoranze, sia nell’industria cinematografica sia nei film che essa produce. Questo per dire che l’America, e Hollywood in particolare, sembra essersi di colpo accorta che i suoi antichi problemi di discriminazione, xenofobia e oggettivizzazione sono ancora più che presenti. Ma come spesso accade, un estremo risveglio da un’estrema condizione di disagio conduce a prendere estreme conseguenze per risolvere il problema nella maniera più rapida e drastica possibile. Il che ci porta al tema della rappresentazione e della diversità nei film contemporanei.

C’è da dire prima di tutto, che Hollywood ha un pessimo passato relativo alla diversità. Per quasi un secolo l’Industria ha ritratto i protagonisti come maschi bianchi e dal volto più Americano di una torta di mele. Solo di recente ci siamo addentrati in un tipo di cinema che si prende la briga di ritrarre eroi di diverse etnie o di sesso femminile. Questo pessimo curriculum, in aggiunta ai recenti scandali e politica, ha portato a un estremismo rappresentativo non sempre genuino e potenzialmente dannoso.

Per spiegare il concetto, facciamo un esempio. Wonder Woman è il primo superhero movie che ha come protagonista un’eroina femminile. Il problema è che la produzione ha puntato più su questo aspetto che sulle qualità oggettive del film. Infatti, la pellicola è mediocre come la sua protagonista. Il soggetto è poi così esplicito che il film è in grado di avvicinare alla causa del femminismo solo chi è già femminista. Mentre chi non lo è troverà ottimi appigli per diventare ancor più ostile. Un esempio opposto è invece Alien (1979). La letale creatura uccide tutto l’equipaggio finché solo Ellen Ripley (Sigourney Weaver) sopravvive. L’elemento geniale sta nel fatto che la prima metà del film è talmente corale che non si capisce chi sia il protagonista. Ma quando i classici eroi mascolini (e non solo) vengono trucidati, ecco che Ripley emerge. Il suo personaggio è lontano da ogni stereotipo. Possiede umanità e umana paura, in conflitto col suo senso del dovere. Ed è bilanciando queste doti che Ripley riesce a vincere. In breve, Ripley non sconfigge Alien perché è una donna, lo sconfigge perché è la persona più forte della ciurma. Un personaggio talmente al di sopra di ogni stereotipo che il pubblico non può fare a meno di tifare per lei, a prescindere da sesso o idee politiche. Questa contaminazione positiva è possibile perché Alien non si vende come un film femminista, mentre Wonder Woman gioca solo e soltanto sul fatto di essere una donna, per assurdo risultando per questo un’operazione a suo modo sessista.

Ora, se estendiamo questo concetto a ogni tipo di film relativo all’inclusione di una minoranza, notiamo che Hollywood mostra una generale immaturità e superficialità nell’affrontare ogni altro aspetto della diversità legato a etnia o xenofobia. In questo senso, sono davvero pochi i film che riescono a trasmettere un messaggio potente arrivando di soppiatto, invece di piazzare la politica in prima linea così da renderla il bersaglio più facile. Ed è proprio a questo punto che, proprio come Ridley Scott in Alien, The Shape of Water di Guillermo Del Toro mostra il suo genio nascosto, e si differenzia da tutti gli altri film contemporanei di stampo sociale. Ad una prima occhiata, infatti, risulterebbe strano che un film a tinte fantasy/fantascientifiche sia riuscito (finalmente!) ad accaparrarsi un meritato Oscar. Del resto, solo Peter Jackson c’era finora riuscito. Se non fosse che Del Toro ha costruito un film dai molti strati. Al centro di questa matrioska non troviamo, come si potrebbe pensare, una tenera favola moderna. Al contrario, troviamo il tema sociale della diversità espressa nella maniera più semplice, efficace, e al contempo complessa, possibile: tramite il dolce dolore di un mostro senza un posto nel mondo.

Addentriamoci per un momento nella trama, per notare come questi diversi strati compongano un film con cui è difficile non empatizzare. Il film si presenta appunto come una favola, mentre la macchina da presa scivola attraverso il corridoio della casa sommersa, la voce di Richard Jenkins, sia interprete che narratore, esordisce nientemeno che con “c’era una volta.” E capiamo subito che questa è la storia di Elisa (Sally Hawkinks), una povera ragazza destinata a trovare il vero amore che la renderà “principessa” di se stessa. Insomma, parliamo di Cenerentola e di Belle, che sopportano la routine alienante di un mondo a cui non appartengono, senza mai lasciar andare il sogno di qualcosa di migliore. Difficile non simpatizzare con un desiderio così universale. Aggiungiamoci poi un piccolo rimando all’archetipo di Ariel, ma del tutto rovesciato. Elisa è un’anti-sirenetta. Se Ariel è una creatura acquatica dalla splendida voce che sogna la terraferma, Elisa è una creatura terrestre letteralmente senza voce come un pesce, che si sente appunto destinata all’acqua.

Proprio a questo punto, se guardiamo con attenzione, notiamo una tecnica narrativa straordinaria. Del Toro parte dalla favola più universale e assoluta: l’archetipo della principessa che attende un principe. E non appena ci acclimatiamo agli archetipi di questa favola classica, quegli stessi archetipi così familiari e accoglienti ci trascinano negli abissi inesplorati e spesso freddi della natura umana, come le dolci ma letali sirene di Ulisse. Certo, Elisa è una principessa che aspetta un principe, ma a differenza delle sue incarnazioni più classiche, Elisa non è stata benedetta con la divina bellezza di Belle o con l’incantevole voce di Ariel. Quando Elisa si fa strada attraverso la sua vita quotidiana, il “mondo normale” non si ferma ad ammirarla. Piuttosto le passa a fianco come se lei fosse invisibile o, al massimo, le riserva un quieto sguardo pietoso o persino infastidito. Elisa avrà pure il cuore di una principessa, ma non c’è assolutamente niente di fiabesco nella sua vita, solo il reale dolore di una donna senza voce in un mondo e in un’epoca (l’America degli anni ‘60) animato dal più totale maschilismo.

Da grande prestigiatore qual è, Del Toro ha già compiuto la sua metamorfosi sotto gli occhi di un pubblico troppo lento per cogliere il trucco. Da qualche parte fra il c’era una volta e il dolore di Elisa, la storia ci ha portato dalla fiaba all’affresco sociale. E il viaggio è appena iniziato.

Perché a fianco di Elisa, troviamo ogni possibile vittima di una società all’apice del suo potere castrante, del suo conformismo e della sua fobia per il diverso. A rendere sopportabile l’esistenza solitaria di Elisa, troviamo la sua collega Zelda (Octavia Spencer). Seppur dotata di una voce che non teme certo di farsi sentire, Zelda è a sua volta un’esclusa. Donna di colore non più giovane o in buona forma fisica, viene trattata come una serva, sia sul lavoro come donna delle pulizie, sia nel suo ambiente domestico dal proprio marito disoccupato. Certo, il suo spirito è sempre vivo e loquace. Infatti potremmo dire che, come in tutte le favole, Zelda rappresenta il momento leggero e divertente della storia, un personaggio che dà sollievo al protagonista e al pubblico, distraendo entrambi dal dramma di un futuro senza sbocchi. Ciò non toglie, che il futuro di Zelda sia altrettanto senza sbocchi.

Ma non è finita, a spingere in dramma ancora più a fondo, ecco che arriva un personaggio ancor più complesso. Dimitri (Michael Stuhlbarg) è nientemeno che una spia Russa sotto copertura. Ora, in un tipico film Americano, la sua sarebbe una figura antagonista, il nemico esterno che cerca di corrompere la purezza del sistema Americano e rubare i suoi segreti. Se non fosse che, malgrado Dimitri non sia affatto uno stinco di santo, il suo personaggio resta comunque il solo fra scienziati e militari, in grado di provare ammirazione, commozione e persino affetto verso la bellezza senza pari del “mostro acquatico” che gli Americani tengono prigioniero nel laboratorio. Dove tutti gli altri vedono uno scherzo della natura da spezzettare, violentare e dissanguare al solo scopo di rubarne i segreti con la forza (come spesso fa l’uomo con la natura stessa), Dimitri vede l’incarnazione della magia segreta di un mondo ben più vasto e profondo della società umana. Il solo pensiero di fargli del male lo ripugna a tal punto da tradire l’America, la Russia e l’umanità intera, al solo scopo di preservare quel poco di magia e purezza rimasta nel mondo: una magia e un’umanità che, per ironia, è celata in un essere inumano e al tempo stesso più umano dell’umano.

A questo punto l’affresco sociale è già così fitto e controverso da dare le vertigini. Dopo una principessa trattata come un mostro, e una spalla comica che ci mostra la tragedia del razzismo, ecco che Del Toro rovescia gli stereotipi della favola una terza volta, e trasforma l’invasore straniero nel solitario portatore dei valori umani in un mondo ossessionato da un progresso violento e senza scrupoli. Ma la svolta decisiva di questo gioco di prestigio sociale deve ancora palesarsi.

Del Toro sfodera quest’asso di cuori dalla manica tramite il personaggio che, più di Elisa stessa, è il vero cuore del film. Giles (Richard Jenkins) è il migliore amico e vicino di casa di Elisa. La sua è forse la figura più tragica, fragilmente umana e al contempo profondamente eroica di tutto il film.

Reliquia di un passato scomparso, Giles è un talentuoso pittore illustrativo rimasto senza lavoro da quando la fotografia ha preso il suo posto. Ma la sua esclusione dal mondo non è solo in ambito lavorativo. Giles ha infatti un cuore da adolescente e un corpo che affonda in una terza età a cui non sente di appartenere. Non si tratta però di una mera sindrome di Peter Pan, ma del semplice frustrato bisogno di essere amato. Perché Giles è stato un giovane omosessuale in un tempo in cui gay significava inumano. Non solo questo pregiudizio ha distrutto il suo amor proprio, ma gli ha anche negato l’amore giovanile e la possibilità di crescere e invecchiare a fianco di un compagno. Ma Giles non si rassegna. Nel lavoro come nella vita sentimentale, Giles si maschera come meglio può da “essere umano normale.” Propone i suoi dipinti, indossa un parrucchino per sembrare più giovane, e ingurgita giorno dopo giorno una torta dal sapore disgustoso al solo scopo di fare due chiacchiere con un giovane barista di cui è innamorato perso.

Certo, così come Elisa, Zelda e Dimitri e ancor più di tutti loro, Giles è un escluso, una persona senza amore, appartenenza o futuro. Ma a differenza di tutti loro, Giles vuole disperatamente un posto in quella società che lo odia. Ed è quei che si palesa il vero genio della storia.

Quando Elisa inizia a provare dei sentimenti per la creatura prigioniera in laboratorio, corre da Giles per chiedere aiuto. Il solo essere vivente che abbia mai guardato Elisa senza provare pietà ma solo meraviglia sta per essere ucciso e sezionato come una cavia. Per spiegare a Giles come mai questo essere meriti di essere salvato, Elisa parla del suo stesso isolamento e dolore. Come lei, la creatura è sola e sfruttata, non può difendersi, parlare o trovare sollievo. Eppure è capace di pensare, sentire e amare la bellezza nella più impensabile delle creature ben più di ogni essere umano. Ora, essendo Giles stesso una vittima dello stesso sistema di pensiero, tutti noi ci aspettiamo che sguaini la spada e si tuffi in prima linea a lottare per i diritti dei diversi. Ma non è così. “Non sappiamo nemmeno se quella cosa è umana!” strepita Giles liberandosi dalla morsa di Elisa e corre a occuparsi del suo rientro nella società.

Certo, Giles è una vittima dell’esclusione sociale. Ma anche una vittima del condizionamento sociale, ciò non di meno. Detesta il fatto di non essere trattato come un essere umano, ma è comunque tentato di tracciare la linea che separa l’umano dal mostro proprio dietro di sé. Perché, malgrado tutto, Giles vuole disperatamente tornare a far parte della società. Lo vuole così tanto da accecare se stesso al cospetto di quella che dovrebbe essere una verità lampante, eppure non lo è: ogni volta che escludi un diverso, escludi dal tuo cuore il diverso che alberga in te stesso. E uccidi una parte di te.

Giles torna a offrire i suoi dipinti che vengono rifiutati ancora una volta e, infine, si reca a corteggiare il suo amato barista. Ecco che si apre una finestra di intimità, il giovane gentile si apre al vecchio e i due parlano cuore a cuore. Ma non appena Giles gli prende la mano, il ragazzo si ritrae schifato guardandolo come un mostro. Proprio in quel momento, una coppia di colore entra nel bar. Un interruttore scatta, la gentilezza sparisce, e il ragazzo li caccia via con disumana freddezza. Solo in quel momento, Giles capisce. La disumanità non è legata a una categoria, la sola linea che separa l’umano dal mostro è la comprensione stessa che quella linea non esiste. Senza quella comprensione, ogni gentilezza è un privilegio riservato a chi si conforma e ogni crudeltà è un diritto di chi accetta tale conformismo uccidendo se stesso come individuo. Giles non può accettarlo. Non è più una questione di ottenere qualcosa, è una questione di non perdere la sua stessa umanità. Si pulisce la lingua da quello schifo di torta che, ammettiamolo, non gli era mai piaciuta, abbandona per sempre il bar, la società e le sue speranze. E corre ad aiutare la sola creatura che, come lui, merita di essere amata e salvata.

Non solo questo gesto è commovente oltre ogni dire, ma ci insegna quella piccola immensa verità che Hollywood si rifiuta spesso di comprendere. Perché nella maggior parte dei film che trattano di razzismo, sessismo o xenofobia, il cattivo è sempre una persona ben definita, un tiranno che, come un diavolo, corrompe gli uomini al razzismo a loro volta. Prendiamo per esempio The Help, dove quasi tutti i personaggi sono buoni come pezzi di pane e soltanto Brice Dallas Howard fa la parte della strega razzista. Questa è una visione conveniente, ma del tutto sbagliata al livello storico-sociale. Non si tratta di eliminare un cattivo, ma di eliminare un cattivo sistema di pensiero. Se il problema sparisse sconfiggendo un nemico, questo vorrebbe dire che alcune persone sono appunto mostri per natura e devono essere sconfitte per salvare la società. Che è esattamente il sistema di pensiero che ha creato la cultura conformista responsabile di tutte le miserie ritratte in Shape of Water. Il vero cattivo è la società stessa. Una volta che la accettiamo, tutti noi siamo vittime e carnefici al contempo, uccidiamo la nostra empatia e neghiamo amore e gentilezza a tutto ciò che non percepiamo come umano. Il problema, quindi, non è uscire dal metaforico bar, il problema è realizzare che il bar stesso si basa sull’esclusione. Quando una cultura intera ti insegna dalla nascita che gli ebrei o le persone di colore non sono affatto persone, uscire da quel sistema di pensiero è quasi impossibile. Anche per una persona come Giles, resa sensibile dal proprio dolore, può essere difficile empatizzare col prossimo quando c’è in gioco il desiderio di far parte di qualcosa. Di essere amati. Questo genera razzismo, esclusioni e fobie: non la cattiveria pura e semplice, ma un morbo che acceca anche il più puro dei cuori quando si tratta di ottenere qualcosa.

Perfino il cattivo di Shape of Water, il freddo colonnello Strickland (Michael Shannon) non è che un frustrato bulletto che ha creduto fin troppo alla favola esclusiva del Sogno Americano. Gli hanno insegnato che gli Americani bianchi sono la sola parte del mondo sana e pura, la parte di cui vale la pena far parte. E così lui indossa la sua cravatta, guida la sua Cadillac, gioca a fare il padre e il marito modello, mentre la sua alienazione lo consuma come l’infezione alle sue dita. Certo, il suo è un ruolo da antagonista, ma resta prima di tutto una vittima della sua stessa, ahimè comprensibile, miopia. La sola cosa che separa Strickland da Giles è la quasi impossibile epifania che può, in certi casi, portare un individuo a una scelta non conformista.

A questo punto il rovesciamento della favola è (quasi) del tutto compiuto. Il gioco di prestigio di Del Toro ha svelato la verità paradossale dietro lo stereotipo. Non si tratta di conquistare l’amore, il successo, un castello o un posto nella società. Niente, neppure nascere nobile o nascere serva o servo, ti rende di diritto un principe o una principessa. Diventiamo principesse e principi solo e soltanto quando abbiamo tutte le ragioni di accettare un principe, una principessa o un castello, ma le rifiutiamo in blocco, a costo della felicità, della sicurezza o della nostra stessa vita, al solo scopo di restare fedeli. Non fedeli a una società, a una cultura o a un desiderio egoista. Ma alla nostra natura. Quella natura che ci rende umani e splendidi mostri al contempo, quella natura che ci ricorda che la parola mostro vuol dire meraviglia, e che abbracciare quel mostro significa abbracciare quel quid evanescente che ci rende più umani dell’umano.

La magia si conclude con un finale splendidamente sovvertito. È la principessa trattata da mostro a salvare il principe-mostro dalla torre, una torre sorvegliata da un “drago” che si trasforma in mostro per via dell’eccessivo desiderio di essere considerato umano.

E cosa succede invece ai due amanti uniti dall’amore impossibile? Riuscirà l’amore della principessa a trasformare la bestia in uomo, il ranocchio in principe? Certo che no. Una metamorfosi assai più splendida corona la metamorfosi finale della storia stessa. È l’amore del mostro a mutare la principessa nel meraviglioso mostro che era destinata ad essere. Grazie alla segreta magia della creatura, le cicatrici sul collo di un’Elisa morente si aprono in branchie, rivelando quello che Elisa ha sempre sognato inconsciamente di essere, quell’io vero e primordiale che tutto il suo essere bramava a gran voce: una creatura dell’acqua. Elisa ha trovato la sua libertà sacrificando tutto per la libertà di un altro, e ha trovato il suo io più puro amando la purezza di un essere che il resto del mondo vedeva come un mostro. Lei e il suo sposo sono adesso più liberi di ogni altra creatura sulla terra, principi di loro stessi e di quel regno infinitamente vasto da essere spesso invisibile, un regno e una favola che si aprono a noi solo e soltanto quando voltiamo le spalle alle false favole e ai falsi regni.




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