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OLANDA : EUTANASIA INFANTILE

a cura di Lidia Fassio
 

Non c’è che dire, quando avevamo ipotizzato che l’Era dell’Acquario con i suoi ideali di libertà, di diversità, di ricerca e sperimentazione con tecniche innovative e rivoluzionarie, avrebbe sfidato l’uomo su difficilissime questioni  personali e collettive la cui portata è enorme e difficilmente quantificabile,  cosa che rende impossibile dare un giudizio, avevamo colto nel segno.

 

In quest’ultimo anno sono stati tanti gli oggetti di discussione che ci hanno messo di fronte a implicazioni etiche, morali e religiose che hanno fatto saltare su barricate opposte i partiti politici che, ovviamente, si sono trovati a dover delineare normative guida sulle varie possibilità che la tecnica oggi rende fattibili, quali l’inseminazione artificiale, la fecondazione assistita ed altro.

 

Non sono ancora terminati gli echi di questi dibattimenti in Italia che,  dall’Olanda - terra di confine e di avanguardia per quanto riguarda le innovazioni e i temi della libertà - arriva una bomba a livello di informazione: un gruppo di pediatri olandesi – tra cui il chiacchieratissimo dr. Verhagen - ha stilato il cosidetto “protocollo di Groningen” in cui si stabiliscono i parametri da dare agli ospedali e ai medici per renderli idonei a giudicare se una vita è degna di essere vissuta, oppure se si può procedere all’eutanasia; ovviamente sarà il Parlamento olandese che dovrà avviare un dibattito pubblico per promulgare una legge che autorizzi “l’eutanasia” su bambini che hanno malattie e malformazioni gravi, la cui vita non sia garantita.

 

Va detto tra l’altro che in Olanda l’eutanasia è stata legalizzata già da alcuni anni e che viene praticata oggi a circa 4000 – 5000 persone l’anno; c’è da aggungere che  proprio in questo paese che ha fatti della libertà una bandiera che sembra essere il vanto di tutti, il ministro della sanità Els Borst ha proposto recentemente la diffusione della “peacefull pill” per gli anziani stanchi di vivere che non vogliono che sia il medico a mettere termine alla loro vita, ma che vogliono “fare da sé”.

Nei giorni scorsi – riportano le cronache – anche Marianne van den Anker, una parlamentare, ha proposto di istituire l’aborto obbligatorio per i malati mentali in modo che non possano dar vita ad altri possibili malati.

 

E’ indubbio che qui entrano in gioco problemi che vanno ben al di là della morale personale e, anche se in un certo senso, è della sfera individuale che si sta parlando, non possiamo però non intravedere in queste richieste qualcosa che sembra oltrepassare o permettere di oltrepassare a chi lo desideri la linea di confine del “diritto – rispetto della vita”. Queste richieste sembrano avvicinarsi all’idea di “eliminare dalla società eventuali soggetti problematici” che andrebbero ad influire sulla serenità familiare e sociale, piuttosto che garantire gli individui.

 

Veniamo poi a scoprire che in Olanda un numero tutt’altro che limitato di bambini già finiscono per essere “uccisi” nel primo anno di vita da pediatri che sull’ala della “compassione” mettono termine in diversi modi alle loro sofferenze e a quelle dei loro genitori. La richiesta di una legge che metta ordine a questo sottobosco sembrerebbe dunque finalizzata a far emergere il “sommerso” che è già presente e che, se rimane tale, è del tutto incontrollabile.

 

Certo, è difficile entrare nel merito di ciò che prova un genitore che si trova di fronte ad un figlio che vive gravissime sofferenze senza avere alcun tipo di speranza, tuttavia, ciò che sconcerta sono proprio i parametri di questo protocollo che, a mio avviso, lasciano troppo spazio all’interpretazione e potrebbero consentire di sconfinare con troppa facilità e superficialità in criteri che sono vicini al concetto di “eliminazione dell’imperfetto” di antica memoria; infine, non possiamo dimenticare, che è molto diverso “decidere per sé stessi di mettere fine alla propria vita”, o “decidere per un figlio che non è in grado di dare un suo parere”.

 

La mia riflessione tuttavia è molto più intima e non finalizzata a dare opinioni né in un senso ne’ nell’altro; non ho la competenza né la presunzione di sapere cosa può essere giusto e cosa no in certe condizioni, né tantomeno mi ritengo in grado di poter decidere se una persona sofferente – giovane o vecchia che sia - abbia diritto o no di chiedere l’eutanasia, perché, a mio avviso questo dipende da molti fattori che hanno a che fare con la morale e l’etica personale.

 

La mia riflessione riguarda invece il senso della vita; il che cos’è la vita? Io credo che fino a che non riusciamo a dare una risposta a questa domanda non sarà facile neppure dare pareri a ciò che sta accadendo.

Si tratta infatti di riuscire a comprendere se la vita è un puro fatto MATERIALE ed organico e come tale ha diritto ad esserci nel momento in cui è ottimale, oppure se la vita è qualcosa di più complesso che contempla anche un che di SPIRITUALE e, pertanto, se ha un significato superiore dentro il quale trovano  spiegazione anche la sofferenza e la malattia.

 

Personalmente credo che la grande differenza stia in questo: c’è qualcosa di più di ciò che vediamo e percepiamo con i nostri sensi? Se c’è è ovvio che, pur non avendone ancora del tutto colta l’essenza, non possiamo non interrogarci sul senso della vita e della morte, sul perché della sofferenza e sull’ipotesi che essa sia uno strumento che serve alla nostra evoluzione. Partendo dal presupposto SPIRITUALE anche la malattia assume un significato che va al di là del visibile; del resto, chi può negare che vi sono persone che sono guarite dopo essere state diagnosticate incurabili e si sono riscoperte “diverse da prima”, ma non sul piano fisico, bensì su quello evolutivo e  della coscienza.

 

Oggi anche la scienza ha stabilito che esistono sia l’entropia che la sintropia e che entrambe regolano e scandiscono l’evoluzione a cui siamo sottoposti, come lo è l’universo intero.

 

Se siamo però schiavi di una visione meccanicistica, siamo di conseguenza portati a pensare che tutto sia frutto del caso; in questo modo non vi è  consapevolezza e questo porta ad una mancanza di sensibilità nei confronti di ciò che vive, al punto da pensare che, a certi livelli, la vita non sia degna di essere vissuta.

 

Come sempre si tratta di un qualcosa di intimo e non solo di opinioni che giungono dall’esterno; tutto può diventare possibile se per noi la vita inizia con la nascita e termina con la morte…giacchè non si trova senso nel continuarla se non è come la vogliamo noi e se non abbiamo autonomia o libertà; se invece pensiamo che la vita sia qualcosa di cui noi siamo parte dentro la quale dobbiamo entrarci per fare esperienza e per comprendere qualcosa di un’unità più grande e più sottile; allora la vita assume una magia straordinaria e,  qualunque sia la forma in cui si presenta, avrà dignità ed accoglienza.




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