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PIETÀ DI KIM KI-DUK

a cura di Francesco Astore
 
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Un lancinante grido di dolore, tragica ferita inflitta all’uomo da un capitalismo sempre dato per spacciato, in realtà vivo, vegeto e aggressivo, oggi ponte tra occidente e oriente, un capitalismo feroce quello mostrato nell’ultimo film del sudcoreano Kim Ki-duk, vincitore del premio più ambito, il Leone d’Oro, all’ultima edizione (la sessantanovesima) del Festival di Venezia.
Sul titolo, Pietà, si innalza un palpito di  speranza che presto si tramuta in anelito di umana compassione. Nella vicenda narrata assistiamo a una rappresentazione di aspra ferocia, con immagini cruente (i delicati di stomaco si astengano dalla visione) che non impedisce, quasi per compenso, al film di essere intriso di religiosità. Basti osservare la locandina dove il regista si rifà all’iconografia dell’immortale capolavoro “la Pietà” di Michelangelo in cui l’attrice, che interpreta il ruolo di madre (l’intensa Jo Min-su), è raffigurata nei panni di una Maria Vergine d’oriente. Il Cristo morente che pende dalle sue braccia è il vibrante Lee Jung-jin (nel ruolo del protagonista).

Il mistico Nettuno, ora nei gradi iniziali dei Pesci, pervade di pathos lo spirito del tempo, fa scoccare una sentimento di comunione umana che aspira a diventare liberazione dal giogo di tutte le prepotenze di cui l’uomo si rende capace.
E ancora una volta il pianeta, nelle manifestazioni artistiche, Nettuno, nel suo più formidabile domicilio acquatico, tende a mostrare la sua vocazione all’idealismo.

Kim Ki-duk stende, servendosi della sua sofisticata mano di regista, un affresco decadente sulla nostra epoca, raccontando il destino della sua patria, la Corea del Sud, che, come, tanti paese asiatici (Cina compresa), è sotto la morsa di uno sfruttamento del lavoro, di un capitalismo di stampo quasi medievale.
Dolente, per tanti versi senza speranza, il film ha il pregio di toccare molti piani simbolici, colmandoli di senso. Illuminando il piano figurativo-estetico-teatrale e quello politico-filosofico-esistenziale, riesce a indurre lo spettatore, pur traumatizzato dalle scene di violenza, a una contemplazione riflessiva sulla natura della condizione umana.

Velocemente, la trama.
“Pietà” è la storia di un giovane uomo incaricato di riscuotere gli altissimi interessi sul debito che poveri lavoratori sono costretti a contrarre nell’affannoso tentativo di  gestire piccole attività in proprio. Nel momento in cui si rivelano completamente insolventi (e succede sempre!), scatta una sorta di esecuzione forzata da parte del protagonista che cerca di rivalersi su di loro reclamandone l’assicurazione che copre gli infortuni sul posto di lavoro. L’uomo, un po’ scapestrato, che avevamo visto dall’apparenza quasi normale, si trasforma così in efferato carnefice-mutilatore. Gli sventurati operai, infatti, si sono impegnati, nel caso non riuscissero a saldare il debito, a pagare gli strozzini con i soldi ottenuti da quell’assicurazione. In mancanza di infortuni reali l’unica soluzione per i malcapitati è di procurarsi da sé queste lesioni (oppure è il boia-esattore a procurargliele, amputandogli un arto, tagliando loro una mano).
Questa macabra catena di montaggio scorre spedita finché nella trama del film non irrompe un personaggio che dice di essere la madre del torturatore. Madre che l’avrebbe abbandonato lasciandolo solo da piccolo. La donna irrompe in una vita sudicia dove anche il sesso (di cui la vicenda si carica) diventa squallido, meccanico, solipsistico (e la tematica sessuale abbonda nei film di Kim Ki-duk).
Ma si tratta davvero della madre del personaggio?
Non voglio anticipare lo svolgimento della storia ma son costretto a svelare che la donna, con estrema lucidità, riuscirà a instillare nell’uomo quella scintilla di dubbio che sfocerà poi in senso di colpa, dunque in quel sentimento pietoso indicato nel titolo.

E vedremo, con la conclusione, la compassione aleggiare come unico elemento consolatorio su tutto il brutale spettacolo, attraverso la musica. Musica che recita un provvidenziale e sereno Kyrie Eleison/Christe Eleison (Signore pietà/Cristo pietà), quasi un manto nettuniano di perdono a riavvolgere i protagonisti in un liberatorio respiro religioso.

Film per “palati forti che hanno il cuore tenero” dovremmo dire ma cui val la pena di assistere per comprendere come il livello di estremo disagio portato dall’economia capitalistica si sia insinuato nei paesi asiatici. 

Nel Tema Natale del regista troviamo una combinazione di durezza – dolcezza, una parte razionale/cinica, unita a una emotiva/sensibile, un asse Cancro – Capricorno di straordinario impatto.
Anche se privo di ora (e di impossibilità di posizionare la Luna) il Cielo di Kim Ki-duk ci appare, difatti, in tutta la sua potenza espressiva e la dinamica creativa.
Nato a Seoul il 20 dicembre 1960, il cineasta ha il Sole nel Sagittario (collocato nei gradi nettuniani), mentre Marte spicca nel segno della sua caduta, il Cancro, contrapponendosi all’accoppiata Giove – Saturno in Capricorno.
Gli argomenti più trattati nei suoi film sono tutti riferibili a quell’asse Cancro – Capricorno che si staglia nel suo Tema.
La casa come rifugio e centro di affetti, la famiglia (abbandonata/ritrovata), l’emancipazione e lo sfruttamento del forte sul debole.
E il sistema capitalistico mondiale, ne è un’espressione convincente, di quest’asse Cancro - Capricorno.
Nel film “Ferro 3 – La Casa vuota”, ad esempio, i due protagonisti vagano in diverse dimore altrui con il tentativo di scavarsi una tana/nido.

Risaltano poi, in molte delle sue opere, a conferma di come i valori zodiacali influenzino le scelte compiute degli artisti, in modo del tutto inconsapevole, alcune simbologie emblematiche dei due segni: l’isola (Capricorno) e il lago (Cancro).

Il Sole Sagittario, nei gradi zodiacali appartenenti a Nettuno, rende la vita di Kim Ki- duk abbastanza avventurosa e in risonanza con le simbologie del pianeta dell’esplorazione, del viaggio materiale e morale, del misticismo, del mutamento frequente.

Assunto come operaio in fabbrica a 17 anni, passa poi ad arruolarsi in marina dove vi resta cinque anni. In seguito si immerge in un’esperienza spirituale di alto profilo: vuol diventare predicatore in una chiesa per non vedenti. Abbandona l’orizzonte religioso per spostarsi a Parigi e abbracciare un orizzonte più prettamente mondano.  Nella frizzante capitale europea, infatti, muove i primi passi come pittore (riesce a mantenersi vendendo i suoi quadri), in seguito si appassiona al cinema e si scopre regista e sceneggiatore.
Il successo arriva nel 2000 con “L’isola” che suscita grande clamore al Festival di Venezia. Ma il film per cui viene ricordato più frequentemente e che lo farà conoscere a livello internazionale, nel 2003, sarà “Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera” in cui si aggiudica il Leone d’argento, premio speciale per la regia, appunto alla sessantunesima Mostra di Venezia.

In quest’escalation di affermazioni, che spesso hanno avuto il plauso di pubblico e critica, giunge l’ambito Leone d’oro di quest’anno.

I valori Sagittario, rappresentati egregiamente nel Tema del regista da Sole e Mercurio nel segno, parlano di un lontano morale e materiale in cui spaziare e far vivere i propri personaggi. L’ambiziosissimo Urano in Leone, trigono a Sole e Mercurio, sommato alla congiunzione Giove-Saturno nel Capricorno stimola e rafforza il proposito di salire in vetta, di andare sempre in alto, di raggiungere il successo.
Un successo che puntualmente arride al regista.

Marte in Cancro inserisce, tuttavia, in un Tema così disposto all’azione conquistatrice, il tarlo del dubbio, la sensibilità per l’indifeso, l’inquieta emotività, tutti derivanti (probabilmente), da un vissuto familiare irrisolto, forse da una violenza morale e materiale subite tra le pareti domestiche e magari durante l’età infantile. Marte approfondisce, con le lesioni di cui soffre, possibili disordini sessuali che toccano il livello psichico e non solo quello puramente affettivo e relazionale. Il pianeta, quando si trova in Cancro, tende a subire o a mettere in atto violenze in famiglia. Ma il pianeta nel Tema di Ki-duk è anche splendidamente recuperato. È sestile a Plutone in Vergine ma, soprattutto, trigono a Nettuno in Scorpione. La tensione emotiva, la sofferenza interiore viene tramutata in estasi artistica e compositiva geniale. Senza scandalizzarsi di utilizzare elementi disturbanti, impregnati di crudeltà e sadismo (Scorpione), che vengono rovesciati, quasi imprevedibilmente, sullo scorrere delle scene e lo spettatore può restarne, a seconda dei gusti e degli stati d’animo, colpito o profondamente turbato.

Le sue suggestioni a volte sembrano riportarci al Luminismo veneto rinascimentale e a Caravaggio; ricordo, a questo proposito, che il regista si è dedicato, prima di avvicinarsi al cinema, alla pittura. Il suo interesse per pittura scaturisce, senz’altro dai gradi della pittura e della grafica (finali della Bilancia, domicilio di X- luce) che, seppur vuoti, ricevono aspetti positivi (il sestile di Urano alla fine del Leone e il sestile del Sole alla fine del Sagittario).
Il pianeta della bellezza, dell’arte intesa in senso globale, Venere, è ospitata in Aquario, testimoniando e rafforzando una vena artistica molto anticonvenzionale. Si tratta di una Venere molto lesa (quadrata “al grado” a Nettuno), ma non per questo, anzi magari proprio in virtù di queste “ferite”, il pianeta riesce ad essere particolarmente visionario, a travestire la realtà, a sovvertirla. Unico recupero che il pianeta della creatività artistica riceve, arriva da Giove in Capricorno, un pacato semisestile d’accordo, ma che comunque ribadisce la regola di rapporti Giove-Venere in chi fa o si interessa di Cinema.




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