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I REDIVIVI DI HOLLYWOOD - UNO SGUARDO AI VOLTI DA OSCAR

a cura di Lorenzo Pelosini
 

Il 2015 è stato un anno di attesi e sorprendenti ritorni qui a Hollywood. Questo autunno, i grandi nomi della regia e della recitazione hanno scoperto le loro carte migliori. I veterani Steven Spielberg, Robert Zemeckis, Ron Howard e Ridley Scott, patroni della Hollywood contemporanea erano stati da qualche anno decretati ufficialmente sul viale del tramonto creativo. Ma come i personaggi interpretati da Matt Damon e Leonardo Dicaprio nelle pellicole dello scorso anno, così questi grandi autori, dati per morti o morenti, sono tornati alla ribalta per reclamare ciò che è loro, con opere quali Il Ponte delle Spie, The Walk, Heart of the Sea e il sorprendente Sopravvissuto  - The Martian. Di fatto, questa è stata un’ottima annata per i giganti della regia, un’annata che, a giudicare dalle copiose nomination, gli Oscar del 2016 sembrano voler premiare. Tuttavia, registi quali Ron Howard, Alejandro G. Inarritu o Spielberg hanno già al loro attivo innumerevoli riconoscimenti tra cui anche uno o più Oscar. In altre parole, la loro storia è già incisa nella pietra o, in questo caso, nell’oro. Dove questi Oscar venturi sembrano invece voler porre una nuova decisiva parola è nell’ambito della recitazione.

Mai come adesso questi Academy Award sono stati l’arena di scontro dei più grandi interpreti sulla piazza, e mai come ora, gli occhi del pubblico, cinefilo e “laico”, sono assiduamente puntati sulla “Mecca del Cinema” in attesa delle magiche parole “And the Oscar goes to…” Infatti la cinquina di attori protagonisti quest’anno è quanto mai eccelsa. Prima di tutto, essa racchiude forse i cinque esemplari di attore di razza più promettenti ed energici della nuova Hollywood. Inoltre, a differenza della cinquina femminile che vede scontrarsi una serie di veterane con già almeno un Oscar o una candidatura alle spalle, quella maschile presenta i quattro più grandi interpreti del nuovo millennio in corsa per il loro primo Oscar (più un giovanissimo outsider con già un Oscar).

Come disse Robert Downey Jr, altro grande redivivo della Hollywood del nuovo millennio, “facciamo la conta dei presenti” e cerchiamo di stilare un assai arduo pronostico.
In prima fila troviamo il vincitore dello scorso anno, il sempre strabiliante e sempre più rampante Eddie Redmayne. Rapidamente emerso da ruoli secondari da bravo ragazzo inglese e con un passato da modello, Eddie si è affermato come protagonista in My Week with Marilyn e da lì, è balzato in primo piano con l’impegnativo ed impegnato La Teoria del Tutto, dove la dolce fragilità di questo ragazzo britannico ha lasciato tutti senza fiato. Con un passato illustre, quest’anno Eddie, armato di capricornina perseveranza, torna alla ribalta con The Danish Girl, un ruolo che affronta uno dei pochi temi ancora scottanti e non propriamente affrontati dal cinema mainstream: il primo caso di cambio di sesso mai tentato nella storia. A un primo sguardo, Eddie sembrerebbe essere in testa ai pronostici. Se c’è una cosa che l’Academy ama sopra ogni altra, è una storia vera dal tema sociale scottante e commovente, saldamente accoppiata con una radicale trasformazione fisica dell’attore che si avventura in un “corpo non suo”. Eddie ha donato dolcezza al suo difficile personaggio. Il pubblico lo ha amato e, cosa assai difficile visto il tema, si è immedesimato. Da questo punto di vista, l’enfant prodige britannico sembrerebbe essere il favorito assoluto. Per di più, da un punto di vista critico, la sua performance potrebbe a buon diritto essere la migliore dell’anno. Tuttavia, Redmayne è anche il solo della cinquina ad aver vinto un Oscar, per di più lo scorso anno. E l’Academy raramente concede una doppia vittoria consecutiva, con le rare eccezioni di mostri sacri quali Tom Hanks (grande escluso di quest’anno).

Del secondo candidato si è vociferato a lungo. In molti pensavano che meritasse la nomination per il solitario lavoro compiuto, ma le probabilità di riconoscimento giocavano a suo sfavore per via del genere del film da lui interpretato. Ciò nonostante, Matt Damon si aggiudica la nomination per lo straordinario The Martian (in italiano, Sopravvissuto), autentica sorpresa di quest’anno. Di fatto Matt arriva a questa nomination in una posizione ibrida. Sebbene abbia già vinto un Oscar, esso fu per la sceneggiatura di Will HuntingGenio Ribelle. Tuttavia, il suo talento attoriale non è ancora stato premiato dall’Academy. Seppur meritato, il suo ritorno nella rosa dei candidati giunge quanto mai inaspettato per via del genere a cui The Martian appartiene. Da sempre, l’Academy ha difficoltà a riconoscere i capolavori di fantascienza, sia in termini performance che di regia. A tutt’oggi, nessun film di fantascienza ha mai vinto l’Oscar per il miglior film o miglior attore. Tra i grandi esclusi troviamo Star Wars, Blade Runner, E.T. L’Extra-Terrestre, 2001 – Odissea nello Spazio, Matrix, Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, Alien e Avatar. Ma come già affermato, The Martian è una sorpresa in ogni suo aspetto. Venduto come una sorta di Cast Away nello spazio, il film risulta di una amabilissima leggerezza comica, sapientemente alternata a un dramma mai stucchevole ma sempre umano grazie alla sapiente mano dello sceneggiatore Drew Goddard. Inoltre, il regista Ridley Scott giunge a questo film dopo un passato di progetti sterili, mal scritti e incompleti diretti con altrettanta freddezza. Mentre qui riscopre tutte le sue doti di narratore. Così come il tema e il regista, così anche Matt Damon diffonde la sua grazia bilancina attraverso tutto il film, e così come il suo personaggio, fa sorgere vita, speranza e perfino risate dallo sterile suolo marziano. Perché la grande sorpresa che Matt ci regala non è quella di continuare a sopravvivere in un terreno ostile, ma quella di farlo con una leggerezza di spirito che sfiora il magico. Damon recita da solo di fronte ad uno schermo di computer per la stragrande maggioranza del film. Ora, lo strumento di ogni attore è il suo partner. Quando un attore è privato di esso, donare una performance credibile rasenta l’impossibile. E qui si mostra, anzi si cela, l’abilità di Matt. Il film dovrebbe risultare, statico, noioso e drammatico e, invece, l’impareggiabile ironia del suo interprete ribalta le sorti del film come del suo personaggio. Come affermato da Leonard Maltin, il più grande nome della critica cinematografica Americana, col quale ho avuto il piacere di assistere all’anteprima nazionale del film a Los Angeles, è difficile accorgersi dell’abilità di Matt Damon nel recitare da solo in una stanza, perché come ogni bravo prestigiatore, lo fa sembrare estremamente facile. Data la grazia con la quale Matt sopravvie a Marte e al film stesso, nonché il genere di film, rendono la sua vittoria assai poco probabile. Per quanto tale vittoria sarebbe di certo auspicabile giacché costituirebbe un primato assoluto, spesso tentato e mai raggiunto.

Dove l’accuratezza dei pronostici si assottiglia, è salendo sul podio. Gli ultimi tre candidati non hanno semplicemente conseguito alcune performance notevoli. Infatti, la summa dei loro lavori li classifica di fatto come costantemente mostruosi. Parliamo di Bryan Cranston, Michael Fassbender e Leonardo DiCaprio.
Quando Bryan è arrivato alla conferenza per l’anteprima del suo ultimo film Trumbo, il suo carisma ha invaso la stanza come una quieta forza della natura. Di classe ma non spocchioso, affasciante ma non vanesio, interessante nell’aspetto ma non classicamente bello, Bryan rappresenta uno dei rari casi di artista che ancora porta dentro un’integrità e un’umanità non corrotta od offuscata dalla vita mondana che Hollywood propina. Così come il suo personaggio, Dalton Trumbo, anche Bryan porta con sé un quieto ma stoico eroismo. La prima cosa che si nota di lui, è un uomo comune, col volto segnato da sottili rughe e occhi buoni persi in un altro mondo, tipici dei Pesci. Nessun vestito costoso, solo una camicia a quadri da insegnante di provincia. Quasi sorrido guardandolo e ripensando al suo ruolo di Walter White in Breaking Bad. Ma ecco che, come Walter o Trumbo, anche Bryan tira fuori la sua vera natura come un pistolero estrae la sei colpi di fronte al nemico. Sotto la gentilezza, la prima cosa che Bryan comunica è la grinta. A differenza dei suoi compagni candidati, Bryan è un uomo che ha sofferto e sudato grandemente per raggiungere un successo che è giunto soltanto superati i 50 anni. Eppure, Cranston non veste quel dolore con curva vergogna, anzi, lo calza con la fierezza del sopravvissuto, facendo intravedere la forma più pura e umile del sogno americano del “self-made man”. Dopo essersi rivelato recentemente al mondo come uno dei più grandi attori viventi grazie al miracoloso Breaking Bad, Bryan giunge quest’anno alla sua prima nomination cinematografica. Sullo schermo, Bryan scivola agile dal dramma alla battuta di spirito, dal momento toccante alla gag sdrammatizzante. Così anche dal vivo, il suo carisma trascina la platea da un’emozione all’altra. Circondato dai miei colleghi, ascolto rapito gli aneddoti sulla sua gioventù, sull’università sul debutto attoriale, rido quando una ragazza gli dice che Bryan somiglia moltissimo al padre di lei e, senza esitare, Bryan risponde “aspetta un attimo, ma chi è tua madre?”. E subito dopo mi commuovo quando fissando brevemente me e i miei colleghi negli occhi sussurra al microfono “Spero col cuore che ce la facciate a sfondare in questo mestiere e spero, un giorno, di poter lavorare con voi”. In breve, l’umana grandezza di questo attore è palese e pari solo a quella dei grandi mostri sacri della New Hollywood quali Robert DeNiro o Dustin Hoffman, così come è palese il suo glorioso futuro nell’industria. Tuttavia, la sua prima nomination giunge in un periodo agguerrito. E dato che l’attore è tutt’altro che sul viale del tramonto, l’Accademy potrebbe decidere di attendere ancora un anno o due prima di premiarlo con quell’Oscar che, a detta di tutti, è così inevitabile che Bryan già lo porta simbolicamente con sé, con la stessa sicurezza con cui porta il suo passato dolore.

Ma passiamo adesso ai due giovani soldati che più di tutti sembrano combattere a denti stretti per la vittoria. È il 2011 quando questo immenso attore Scozzese-Tedesco si impone all’attenzione del grande pubblico. Prima di allora, gli intenditori lo avevano notato per il crudo e intenso Hunger, diretto da Steve McQueen (nessuna parentela con l’attore), lo stesso regista che gli donerà la fama, e nel ruolo dell’ufficiale inglese infiltrato nella storica scena del pub in Bastardi Senza Gloria. Ma ecco che nel giro di un anno, questo grintoso ariete raccoglie l’onerosa eredità di IanMcKellen nei panni di un giovane Magneto che lentamente si volge al “Lato Oscuro” nel notevole e inatteso X-Men –L’Inizio; e subito dopo ci dona una delle più struggenti performance dell’anno col meraviglioso e intimo Shame. A cinque anni da quello storico debutto, l’attore ora 38enne non ha esitato a fermarsi. Piglio inglese, classe da James Bond che riecheggia un giovane Sean Connery, eppure un’intima malcelata fragilità negli occhi spalancati e nel digrignare dei denti. Dopo l’ignorato Shame (difatto una vergogna), la nomination arriva obbligatoria, con 12 Anni Schiavo firmato dallo stesso regista. Ma sebbene tutta Hollywood non fa che chiedere di lui, sebbene nel giro di un lustro egli sia divenuto Magneto, Altair e perfino Re Macbeth, l’Accademy sembra voler mantenere la suspense ancora per un po’. Oggi, Michael si presenta al loro cospetto nei panni di un’altra icona della cultura popolare, questa volta non un eroe dei fumetti o dei videogiochi, ma col dio dell’informatica Steve Jobs. Sebbene l’omonimo film sia stato sostanzialmente ignorato a causa di una malcurata campagna pubblicitaria, la sua performance non lo è stata. Nel ritrarre Steve Jobs, Michael sceglie un approccio di basso profilo, pochi e ben curati gesti eccentrici e un’enfasi nella fragilità dell’uomo dietro le quinte prima di divenire artista e icona sul palco. Un gesto quasi autobiografico dalla firma quanto mai intima che punta diretto all’Accademy e al pubblico più raffinato, rammentando a tutti che Fassbender è un interprete capace di ogni cosa. Per tutte queste doti, Michael è senza dubbio uno dei favoriti, senza contare che, assieme con Bryan, anche lui ritrae un personaggio realmente esistito e caro alla storia.

Ma passiamo ora al vero protagonista di questa edizione degli Oscar ancor prima che sia iniziata. A differenza di tutti gli altri, non c’è alcun bisogno di introdurre questo artista a un qualsiasi pubblico. Grande o piccolo, maschi o femmina, tutti hanno a loro modo conosciuto e, perché no, amato Leonardo Dicaprio. Seppur solo 42enne, la sua carriera inizia 26 anni fa con la sitcom Genitori in Blue Jeans. Leo è poco più di un bambino quando inizia a mostrare il suo carisma e poco meno di un ragazzo quando riceve la sua prima nomination per Buon Compleanno, MrGrape. Dopo Titanic, Leo diviene l’idolo delle giovani folle femminili. Un carisma inciso sui lineamenti perfetti e coronato dagli occhi profondi di uno scorpione quasi archetipico, dal carattere a volte burbero e non sempre compreso nella sua complessità e nel suo travaglio. Ma Leo non si ferma lì, vuole ricordare al mondo che è prima di tutto un grande attore. Passa da Cameron al grande Steven Spielberg, a cui dona la sua più grande ma spesso sottovalutata performance nei panni del fuggitivo Frank in Prova a Prendermi. Seguono anni di oscurità e incertezza. Ma da essi, Leo riemerge e risorge da bravo scorpione grazie alla guida del maestro Scorsese, sotto la cui influenza, Leo rivela il suo vero potenziale. Volto trasformato, lineamenti induriti, un accenno di barba e il peso degli anni e di qualche sconfitta ed ecco che Leo passa da eterno ventenne a intenso adulto. Le nomination tornano a fioccare, prima The Aviator (dove i bookmaker lo davano per assoluto favorito), poi Blood Diamond e The Wolf of Wallstreet. Si imbarca intanto con Clint Eastwood, noto patrono di attori in cerca di Oscar ma l’Accademy lo ignora. Le sue performance sono talmente palesi nell’intensità e nel valore artistico che l’assenza di un Oscar nella sua carriera si trasforma in un barzelletta. Il web impazza, rovesciando affettuosamente valanghe di meme e gif sul povero “sfigato” Leo, amante frustrato cui viene ripetutamente negato ciò che merita e agogna come un eterno Wile E. Coyote a caccia del BeepBeep. Eppure, Leo afferma costantemente che l’Oscar è l’ultimo dei suoi pensieri. Alla proiezione di The Revenant, durante l’intervista con la stampa a cui ho avuto il piacere di partecipare, l’Accademy non viene nemmeno menzionata. Al contrario, Leo se ne sta composto sulla sedia, per lo più silenzioso, mentre i premi Oscar Inarritu e Lubezki parlano del loro film. Leo alza il microfono solo per risponde alle domande che ha davvero a cuore, quelle sulla difficoltà della recitazione e sull’importanza della giusta chimica e della giusta dose di sacrificio sul set. E di fatto, gli aneddoti sono incredibili, un giorno di bronchite passato a recitare nudo sulla neve, una scena coi cavi senza controfigura dove Leo ha rischiato la vita, diversi giorni nei boschi senza appropriata nutrizione e negli 11 mesi di riprese lontani dalla civiltà. Insomma, quale che sia il suo scopo, la dedizione di Leonardo al suo lavoro è senza pari, così come lo è la sua performance. Di fatto, The Revenant non crea il suo miglior personaggio, ma conferma lo spirito di uno dei più grandi attori diversi, capace di tenere duro, reinventarsi, quasi morire, e risorgere dal buio del bosco per tornare alla civiltà con ancor più grinta e una ancor più variegata leggenda alle spalle.
E se c’è chi ancora fa battute sul fatto che è più probabile che sia l’orso di The Revenant a vincere la mitica statuetta a questo giro di boa, per la prima volta si odora atmosfera di cambiamento nell’aria di Hollywood. Una verità che non può essere più negata e un talento che, seppur in ritardo, merita di essere riconosciuto ad uno stoico artista, uno Scorpione sopravvissuto a molte vite e molte morti per portare avanti la sua missione.

Malgrado i pronostici e la ragionevolezza che danno Leo come assoluto favorito, l’Accademy è nota per discutibili decisioni nel premiare la norma e non l’eccezione, il cliente affezionato piuttosto che l’eterno outsider. Per cui non ci resta che attendere questo weekend, quando tutta Hollywood si radunerà sotto il tetto del Kodak Theater per aprire le buste e dichiarare al mondo quale di questi immensi talenti si alzerà per incidere il suo nome nell’oro.




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