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LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT. L'ALBA DEGLI EROI ITALIANI

a cura di Lorenzo Pelosini
 

Alle prime luci, una sagoma scura si staglia sul cielo di Roma dalla cima del Colosseo.
Non è un uccello e non è un aereo, non è un alieno né un miliardario: è Enzo Ceccotti, il più improbabile degli eroi, ma quello di cui abbiamo bisogno.

Il 25 Febbraio è uscito nelle sale italiane il film di Gabriele Mainetti Lo Chiamavano Jeeg Robot e chi vi scrive non potrebbe essere più felice di affermare che, da questo momento, il cinema italiano non sarà più lo stesso. Il film di Mainetti è uno di quei rari spartiacque che si verificano solo di rado, una possibilità che la nostra stagnante situazione cinematografica non aveva motivo di aspettarsi, un’alba che forse non ci meritiamo ma di cui abbiamo certamente un estremo bisogno.

Enzo [Claudio Santamaria, non a caso celebre voce italiana del Batman di Nolan] è un ladruncolo di periferia, perso in una vita di squallore priva di ogni contatto umano. Per sfuggire alla polizia, si getta nel Tevere, dove dei residui tossici gli conferiscono una forza sopra la norma. Le sue nuove abilità, lo porteranno presto a scontrarsi con lo Zingaro [Luca Marinelli]: un piccolo boss della malavita romana con manie di grandezza. Durante lo scontro, Enzo incontrerà Alessia [Ilenia Pastorelli], una ragazza problematica che vive in un infantile mondo di fantasia basato sul suo anime preferito. Quando Enzo la salva, agli occhi di Alessia lui diventa Jeeg Robot. La sinossi della trama del film di Mainetti non rende giustizia alla forza del film, una forza che risiede nella messa in scena, nei dettagli dei dialoghi, nella recitazione e nella accurata costruzione di una sceneggiatura ricolma di passione e di mitologia internazionale, nazionale e personale.

Partiamo subito dall’aspetto principale che fa di questo film una splendida anomalia. Mainetti è un bambino. E questo lo dico nel senso più puro e colmo di ammirazione del termine. All’età di 42 anni il regista ricorda ancora perfettamente il motivo e la passione che lo hanno spinto a cominciare la sua carriera e questo si riflette in maniera lampante nella sua opera. Come molti della sua generazione, Gabriele è cresciuto con i grandi anime giapponesi che riempivano le televisioni di tutta Italia negli anni ’80: Lupin, Tiger Man e ovviamente Jeeg Robot. L’influenza culturale, così come Dragon Ball per gli anni ’90, è stata talmente forte che quegli eroi costituiscono la base per l’inconscio collettivo di sogni e speranze di più di una generazione di piccoli sognatori. Quei bambini hanno fatto di quegli eroi i loro idoli e i protagonisti dei loro giochi d’infanzia e il loro scudo contro le amarezze della realtà adulta. Ma presto o tardi, quella realtà arriva a morderti e la speranza e l’entusiasmo che quegli eroi incarnavano si fa opaco fino a sparire. Alcuni di quei bambini cresciuti sotto la stella degli anime hanno tentato di usare quell’ispirazione nel loro lavoro di artisti. Per quanto nobile, tale ispirazione porta spesso a creare opere narrative che si distaccano talmente dalla realtà da risultare esattamente quello che i loro autori desiderano nel profondo: un mero e semplice ritorno a un’era di innocenza e sicurezza. Una sindrome di Peter Pan astrologicamente rappresentata dal segno dei Gemelli dominato da Mercurio, che, come l’eterno bambino di Barrie, dona la capacità di volare a chi ancora sogna, ma esilia permanentemente il soggetto in un mondo meramente etereo.

Ed è qui che Mainetti espone, invece, il suo più che unico talento. Come altri milioni di bambini, Mainetti è cresciuto con gli eroi degli anime. Come molti altri artisti, egli è diventato regista per tenere vivi quegli eroi. Ma osservando i notevoli cortometraggi che hanno preceduto Lo Chiamavano Jeeg Robot, notiamo che Mainetti ha trasformato lo scontro tra eroi e villain in uno scontro tra speranza e realtà, trasferendo l’arena dallo schermo televisivo alle strade della periferia romana, simbolo di un’Italia in declino. In Basette, suo primo notevole cortometraggio professionale, il protagonista è un ladro che cerca di imitare la grandezza e il carisma di Lupin finendo per scontrarsi fatalmente con la crudezza di un mondo senza magia: simbolo di un primo tentativo e fallimento di un autore che cerca disperatamente una strada per diventare l’eroe di se stesso. Ed ecco che Tiger Boy, il secondo corto, si presenta come l’inizio di una risposta, una vendetta, ma anche un riscatto di un’infanzia rubata che si affaccia alla maturità reclamando se stessa. Un bambino ossessionato dal wrestler El Tigre (palese riferimento a Tiger Man), usa il suo alter-ego per ribellarsi alle molestie sessuali del preside della sua scuola. Un magnifico e semplice ritratto di un bambino che cessa di osservare il suo eroe e inizia a incarnarlo attivamente nella vita di tutti i giorni. Ed è in seguito a questa raggiunta maturità che Lo Chiamavano Jeeg Robot arriva a concretizzare la matassa di sogni e speranze del giovane autore in una prima opera matura e rivoluzionaria. Un’opera abbastanza onesta e sporca da permettere alla speranza che porta al centro di trapelare e palesarsi senza stuccare, anzi ricordando a chi la guarda che dallo sporco di questa nostra realtà morente e inquinata può ancora sopravvivere, e addirittura nascere, del buono. Una rinascita scorpionica dal fango della palude: oscura, affatto innocente, ma profonda e autentica.

Enzo non è che un ladro, un uomo senza umanità, senza amici e senza legami. Passa la giornata mangiando budino e guardando film porno nel suo claustrofobico monolocale. La premessa meno lusinghiera per un futuro giustiziere. Perfino i suoi poteri giungono dalle scorie industriali che giacciono sul letto del Tevere: una splendida e complessa metafora che, non solo permette al primo vero supereroe italiano di sorgere dalle acque del fiume della capitale inscrivendosi di diritto nella mitologia nazionale, ma ci ricorda che per quanto i nostri simboli, come il Tevere o il Colosseo, stiano annerendosi poco a poco così come la nostra cultura, da essi può ancora sorgere il nuovo e il buono. In altre parole, l’eroe che redime se stesso prima di redimere il mondo. Ed è esattamente quello che Enzo fa. Dapprima, usa il suo potere per rapinare bancomat. Ma è l’incontro con Alessia a cambiargli la vita.

In questa occasione, Mainetti mette a segno un altro sottile ma abilissimo colpo di genio. Nel personaggio della più che amabile fragile ragazza ossessionata dagli anime, il regista crea molto di più che una semplice donzella in difficoltà. Al di sotto del classico e ormai scontato oggetto delle attenzioni romantiche dell’eroico protagonista, Alessia è qualcosa di diverso: lo spirito e la voce di un’infanzia ignorata. Dopo la morte della madre, la ragazza si congela in uno stato di eterna infanzia. Cosciente ma spaventata dalla sua sessualità così come dal mondo di corruzione e crimine in cui e avviluppata per via del padre rapinatore, Alessia si rifugia nella sua collezione di dvd di Jeeg Robot, interpretando ogni evento traumatico che avviene nella sua vita come una proiezione del suo anime. La prima impressione è che la ragazza sia semplicemente affetta da problemi psicologici e che la sua sola via di fuga dal dolore sia il suo mondo di fantasia. Ma lentamente, la sua innocente saggezza si fa strada tra le sue parole apparentemente incoerenti, fino a delineare la figura di un eroe dove nessuno riesce a vederlo. Alessia è infatti la prima a riconoscere non solo i poteri ma il valore umano del suo salvatore Enzo. Dapprima lui si rifiuta di ascoltarla, pensando solo a come uscire dalla situazione pericolosa in cui si è cacciato salvandola dalla malavita romana. Ma lentamente, Enzo si lascia coinvolgere in quella che, più che una storia d’amore con una ragazza, è una storia d’amore con la musa dimenticata dell’infanzia. Più i due si avvicinano, più Enzo riscopre la sua sensibilità e la sua umanità. Il culmine di questo processo, è la scena al parco giochi abbandonato in cui Alessia passava le giornate da bambina, dove la forza del nostro eroe si esplica in quella che è forse la più dolce e sublime metafora del film. Dopo aver fatto salire Alessia sulla ruota panoramica in disuso, Enzo inizia a spingerla per farla girare ancora una volta, solo per vedere Alessia sorridere. È qui che mitologia nazionale e personale coincidono con una forza espressiva che ha dello straordinario.

Enzo è la forza di un’Italia menefreghista che ha smesso di sognare da anni, ma che ritrova la volontà e la forza di rimettere le cose in moto per  l’amore di quel bambino interiore che ancora vede la magia attraverso la sporcizia e spera in un futuro migliore. Con l’amore sia paterno che romantico di Enzo per Alessia, Mainetti riprende il discorso dove De Sica lo aveva lasciato con Ladri di Biciclette. Il mondo esterno, ci dice De Sica, vince su di noi, quando lasciamo che la tragedia del mondo esterno ci allontani dal bambino che portiamo appresso. Ma se torniamo ad ascoltare quel bambino prima che sia tardi, riprende Mainetti, allora ritroveremo la nostra anima perduta e, forse, anche l’anima della nostra Nazione più volte devastata dalla guerra e ora da una crisi durata troppo a lungo.

Ed è proprio dal Neo Realismo, la più grande corrente artistica della nostra cinematografia, che Mainetti trae la sua seconda fonte di ispirazione. Affiancandosi a quel neo-neo realismo creato da Matteo Garrone con Gomorra, Mainetti si avventura nel vero fangoso e maleodorante cuore della malavita italiana, colmo dei suoi orrori e (a differenza della malavita ritratta dal cinema americano) del suo squallore. Infatti, dove il cinema europeo ha spesso fallito in passato, è stato nel tentare di instaurare una mitologia nazionale prendendo spunto dal glamour e dalla grandiosità dei film americani, film dai grandi budget e figli di una cultura la cui base è l’esaltazione del denaro e della dimensione. Ma così come Garrone con i film di gangster, così anche Mainetti dona al neonato filone dei supereroi italiani un pungente profumo neorealista. Il regista sa che la nostra è una realtà dominata dal sogno di grandezza americano, un mondo di piccoli criminali che sognano di divenire il nuovo Scarface. Un mondo che è fatto di squallore e di sogni di gloria che portano a piccole morti in piccoli vicoli. Ed è da qui che Mainetti costruisce la mitologia e il panorama da cui l’eroe e l’antagonista italiano sorgono. Al posto della sfarzosa villa o del quartier generale del cattivo, qui abbiamo una baraccopoli, al posto dei costumi colorati, parrucche posticce e maschere cucite all’uncinetto, al posto di Joker o Lex Luthor, un ladruncolo mitomane che non riesce ad elevarsi dallo squallore a cui appartiene. È così che il grandioso personaggio dello Zingaro interpretato da un grandioso Marinelli, nasce e si sviluppa. La follia è quella del Joker di Ledger, la cieca ambizione frustrata quella del Loki di Hiddleston in Avengers. Eppure, a ciò si aggiunge una ancor più profonda rabbia di un bambino a cui è stato rubato il suo glorioso futuro. Per certi aspetti, lo Zingaro non è altro che la versione oscura, non tanto del protagonista, ma della sua anima, qui incarnata da Alessia. Un bambino con dei sogni di grandezza ed eroismo frustrati che, anziché lottare per riaccendere quei sogni facendo dello squallore in cui vive un posto migliore, rifiuta quel mondo con tutte le sue forze ed è pronto a distruggere tutto e tutti pur di fuggirlo. Questa potente scrittura e caratterizzazione si affiancano al talento recitativo di Marinelli, folle e sopra le righe come un vero cattivo deve essere, ma mai eccessivo e sempre terrificante, anche e soprattutto nei suoi momenti di imbarazzante sconfitta. Sporco come un ratto e fascinoso come un diavolo, con le sue scene di karaoke, ira, umiliazione e massacro, lo Zingaro trova il suo posto e la sua identità in un universo sovrappopolato da villain sempre più eccessivi e psicotici.

In conclusione, connettendo anime con neorealismo, mitologia universale con iconografia locale, infanzia personale con infanzia nazionale, fantasia con malattia mentale, speranza con squallore ed eroi con accattoni, l’opera di Mainetti è tutt’altro che un semplice film di supereroi, ma è esattamente quello che i film di supereroi hanno sempre rappresentato al loro fulcro: la riscoperta della magia e speranza dell’infanzia in un mondo sporco. E la forza di riaccendere quella magia in quel mondo a costo della vita.

Candidato a 16 David di Donatello, Lo Chiamavano Jeeg Robot uscirà di nuovo nelle sale Italiane il 21 Aprile 2016.




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