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L'ETICA DELLA DISOBBEDIENZA

a cura di Paolo Crimaldi
 

La disobbedienza richiede una scelta.

Cresciamo con i no detti a chi ci accudisce, agli insegnanti, all’amico/a del cuore, al nostro partner.

Sono le nostre prime forme di disobbedienza quelle che permettono di prendere consapevolezza che siamo persone uniche, non necessariamente allineate con chi vogliamo bene o stimiamo, e che ci danno modo di capire che si può non essere d’accordo con qualcuno o qualcosa, mostrare quindi il proprio dissenso, disobbedire a qualcosa che non si ritiene giusto, senza necessariamente distruggere la relazione.

La disobbedienza la si pratica in vari modi, alcune volte silentemente, senza mai arrivare allo scontro, altre invece rumorosamente, coinvolgendo magari altre persone, addirittura masse, al fine di sovvertire un sistema.

Disobbedire aiuta a crescere, a individuarsi come persone uniche e irripetibili, a venir fuori da modelli clonati da generazioni che per quanto utili e rassicuranti per molti, nelle persone creative finiscono col diventare vere e proprie prigioni dalle quali evadere in un determinato momento della propria esistenza.

Questo momento in genere si palesa tra i quaranta e i cinquant’anni quando si avverte sempre più forte il bisogno di piacere e rispondere primariamente a se stessi e poi agli altri, all’ambiente nel quale ci si trova a vivere. È il momento nel quale l’opinione altrui inizia a contare meno nelle scelte che portiano avanti e generalmente non spaventa il restare, anche momentaneamente da soli, se non si risponde più alla richiesta di omologazione che giunge dalle figure di riferimento affettivo o dalla società di appartenenza.

Disobbedire però può comportare per l’appunto il rischio di rimanere da soli, di rendersi improvvisamente impopolari quando addirittura non invisi agli occhi di chi solo fino a qualche giorno prima sembrava condividere ogni nostro pensiero e scelta.

La solitudine del disobbediente è un atto creativo, di affermazione del proprio pensiero consapevole del costo che si va a pagare. Non è mai una scelta irrazionale, istintiva, dettata dall’emozione del momento, ma giunge a seguito di un lungo lavorio fatto di riflessione, ripensamenti, ansie e allo stesso tempo guidata dall’impellenza di non poter sottostare a qualcuno o qualcosa che non appartiene più al proprio sistema di valori.

La disobbedienza è un atto politico nel senso che è guidato da un bisogno che entra nel piano dell’etica, ovvero che necessita di un’accurata riflessione che può durare anche anni prima che si possa tradurre in azione di dissenso vero e proprio, manifesto in quanto irrinunciabile per il proprio benessere emotivo.

Disobbedire è politicamente rilevante perché il dire no a un qualcosa di apparentemente consolidato inevitabilmente corrisponde a un atto che va a scalfire un qualcosa di granitico che inizia a presentare il peso della sua storia e spesso l’inattualità del suo esistere.

È un atto di una grande potenza creativa che a voler abbracciare la teoria del caos, quella secondo cui un battito di ali di una farfalla a Tokio può scatenare una tempesta a Madrid, dovrebbe generare a sua volta altre ribellioni secondo un principio di connessione psicologico-energetico in cui nulla va disperso e tutto confluisce in progetto di alta risonanza universale.

Del resto sono gli esempi che la storia dell’uomo ci offre, sia sul piano mitologico che su quello concreto, a far comprendere che le svolte radicali e innovative che il pensiero umano ha realizzato giungono sempre da parte di chi, dio o comune mortale, ha saputo opporsi a un qualcosa che andava a bloccare una libertà personale o collettiva, dando così il via a un lento quanto inesorabile processo di emancipazione e autonomia da ciò che i più ritenevano impossibile poter realizzare.

Del resto la storia del pensiero occidentale di matrice giudaico-cristiana parte da un atto di disobbedienza. Eva convince Adamo a disobbedire a Dio, a uscire dall’universo protetto ma probabilmente fortemente statico e noioso del Paradiso terrestre, cosa che ancor prima aveva già fatto Lilith andando via volontariamente dallo stesso luogo, lasciando un Adamo lamentoso e trovando il coraggio di disobbedire all’imposizione di Dio di tornare nuovamente accanto al suo sposo pena la distruzione della sua prole.

Lilith ebbe il coraggio profondo di chi mette in crisi un sistema fortemente centralizzato e dispotico, seguita in modo meno radicale da Eva, e a loro volta da tante donne reali che nel loro quotidiano ancora oggi lottano per venir fuori da un patriarcato che all’apparenza le tutela ma che nel profondo le annulla psicologicamente.

Possiamo allora dire che la disobbedienza è femminile? Probabilmente si se la s’intende in termini puramente archetipi e psicologici, nel senso che per potersi manifestare e concretizzare ha bisogno di una tale carica emotiva e di una visione così spesso fortemente utopica che va a costellare valenze tipicamente appartenenti al femminile. La forza, il coraggio di cui necessità sono solo all’apparenza di pertinenza maschile perché il più delle volte non è la forza fisica che guida la persona disobbediente, né tantomeno il coraggio irresponsabile del guerriero che conta su ideali che restano ancorati pur sempre a un’ideologia granitica di appartenenza a uno status ben delineato e soprattutto accettato socialmente.

L’individuo che disobbedisce ha in sé la consapevolezza anche di chi può vivere un periodo della propria vita isolato dagli altri perché non capito o perché privato coattivamente della propria libertà se non addirittura da reietto in alcuni casi, quando l’atto di disobbedienza va a minare le strutture stesse della società di appartenenza.

E ancora una volta è il femminile a imporsi come modello: si pensi solo al fenomeno della stregoneria in occidente che per ben quattro secoli ha messo in discussione il potere della Chiesa e di un certo tipo di spiritualità, pur pagando in modo atroce il prezzo di una scelta dissidente.

Sul piano della crescita psicologica il primo atto di disobbedienza per poter veder nascere un proprio Sé libero e differenziato è quello dalla figura materna.

Generalmente ciò avviene con la fine dell’infanzia e l’inizio dell’adolescenza e spesso la sessualità con la sua necessità di essere vissuta liberamente diventa il volano dei primi atti di chiara e definita disobbedienza alle regole in primis materne e poi più in generale familiari.

È il momento in cui si disobbedisce all’amore primario, alla sua unicità, magari solo per entrare in un altro altrettanto esclusivo e limitante ma con una persona diversa dal primo oggetto d’amore e non di rado invisa proprio a quest’ultima.

La capacità di disobbedire, di andare a modificare un sistema, comodo per alcuni versi, e aprirsi all’incertezza del futuro è un atto di grande coraggio ed è peculiare della figura dell’eroe positivo che non conta solo sulla propria forza fisica ma principalmente sulle sue capacità intellettive, strategiche, che riescono a guardare oltre l’oggi e si proiettano in un futuro diverso da quello immaginato e creduto ineluttabile dalla massa.

Disobbedire significa creare il proprio futuro, aprirsi alla prospettiva di poter vivere maggiormente in contatto con le proprie emozioni, con un sentire che è in armonia con ciò che si è e non che si dovrebbe essere solo per compiacere la famiglia, il partner o la società a cui si appartiene.

La crescita e l’emancipazione psicologica passano attraverso i no detti con convinzione, vissuti come atto politico di dissenso a uno status che ci vuole allineati a un sistema che vanta una più forte adesione e difesa ma che non è in grado molto spesso di far proprie, e integrarle, le istanze critiche e trasformative che giungono da chi se ne distacca e lo mette in discussione.

In questo particolare momento storico il politically correct rende ancor più difficile l’atto di disobbedienza perché immediatamente stigmatizza chi dissente da un’apparente società libera e rispettosa dei diritti di tutti.

Fortunatamente la tensione psichica di chi ha bisogno di trovare una propria differente dimensione esistenziale e allontanarsi da regole, convenzioni, certezze, sicurezze, non può essere a lungo bloccata e trattenuta e prima o poi esonda laddove è necessario che avvenga.

Non bisogna necessariamente disobbedire per vedere realizzati grandi ideali, anzi sono gli atti di dissenso piccoli, microscopici, quotidiani quelli che paradossalmente cambiamo maggiormente il sistema di appartenenza e aprono la strada al cambiamento macroscopico che spesso giunge molto tempo dopo, quando i primi disobbedienti sono andati già oltre.

Essere consapevoli di potersi sentire liberi di dissentire, di non allinearsi, di vivere in ascolto della propria coscienza etica può a volte essere pericoloso e richiedere più di qualche sacrificio ma allo stesso tempo dona quella sensazione di libertà interiore che è più di un semplice brivido passeggero.

Del resto chi ha lasciato il segno del proprio passaggio su questa terra è dato da quegli individui che hanno creduto in qualcosa che avrebbe cambiato ciò che avevano trovato di disfunzionale e, scegliendo di non adeguarsi, hanno avviato un cambiamento che in alcuni casi ha letteralmente, e concretamente, mutato il modo d’interpretare e conoscere il mondo.




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