Semel in anno licet insanire… dice un antico proverbio. Che tuttavia sembra sottintendere che "almeno" una volta all’anno sia non soltanto lecito ma opportuno comportarsi come matti, cioè senza regole e senza limiti. Questo almeno sembra essere, oggi, il senso del Carnevale: un legittimo e salutare sfogo prima del digiuno della Quaresima ("carnem levare"), che non a caso si conclude ufficialmente con il "martedì grasso", come se la sazietà di cibo e divertimenti rendesse meno faticosa l’imminente astinenza o penitenza… Non è in fondo molto dignitoso questo compromesso tra dovere e trasgressione, che ci fa somigliare a foche che si preparano all’inverno o, peggio, fa sembrare la vita precedente o successiva a quell’unica "ora d’aria" come un carcere di continua sottomissione. Ma è interessante notare che l’origine del Carnevale sembra essere nei cosiddetti Saturnali, feste pagane e propiziatorie dell’antica Roma in onore di un Dio che, almeno astrologicamente, associamo appunto al dovere e al senso della responsabilità: interessante ma paradossale, se pensiamo che ancora oggi il termine "pazza gioia" condanna la razionalità saturnina ad essere dunque sinonimo di tristezza, o comunque di privazione.
Oggi, in verità, non abbiamo certo bisogno della settimana di Carnevale per ingrassarci o svagarci, eppure abbiamo ancora bisogno – e forse di più rispetto ad un tempo – di qualcosa che ci autorizzi a ripristinare un equilibrio, o almeno ciò che crediamo tale e per quanto possibile in condizioni estreme. Sappiamo bene che non è permettendoci un’episodica pausa di follia che possiamo compensare le frustrazioni o restrizioni quotidiane, eppure poter contare su un contenitore del genere è evidentemente ed ugualmente un sollievo, almeno a giudicare dall’entusiasmo partecipativo di cui ancora gode questa ricorrenza e a prescindere dall’ulteriore paradosso per cui i confini temporali di periodo e di durata ripropongono di fatto proprio il Saturno più rigido. Ma tant’è: il Carnevale piace ancora, e certamente non solo ai bambini, che hanno tanti e ben altri modi di giocare, osare e sognare. Anzi, direi che per i bambini il Carnevale è spesso una festa meno ludica e gratificante di quanto pensiamo: costretti come sono a indossare il costumino di Zorro mentre magari preferirebbero quello da Cavaliere Jedi o a metterci sopra pure il cappotto, alla sfilata in piazza, perché fa freddo…
Perché, ecco, è la Maschera l’elemento che più caratterizza il Carnevale; oggi come un tempo, anche se nel tempo il suo significato simbolico è mutato. Nell’antichità preistorica, come in certi rituali tribali ancora in uso, indossare una maschera aveva lo scopo di ingannare i demoni, di impressionarli e convincerli a venire a patti con le esigenze umane; nel Medioevo la maschera diventò il corrispondente dell’odierna satira, una buffonesca e spesso caricaturale raffigurazione degli aspetti sociali più popolari; dal Rinascimento assunse anche una valenza artistica ma solo più tardi cominciò a rappresentare quella copertura o contraffazione dell’immagine che ha permesso alla figura dell’"uomo mascherato" di inserirsi e permanere nella fantasia in modo così inquietante ed intrigante insieme. E così, nel tempo, la maschera che voleva scacciare gli spiriti maligni è diventata essa stessa un demone, un fantasma… o comunque un aspetto oscuro (forse solo perché inconscio) da incarnare e così esorcizzare.
Oggigiorno, non è certo il birichino Mercurio-Arlecchino a rappresentare la maschera del nostro Carnevale, e nemmeno il bonario Giove-Balanzone, la civettuola Venere-Colombina o l’avaro Saturno-Pantalone. E’ Nettuno il vero alter-ego dell’uomo moderno, l’uomo ingabbiato nelle regole della civiltà burocratica che tuttavia sottilmente, ed ancora una volta paradossalmente, ne enfatizza l’estro trasgressivo e liberatorio con l’altra sua faccia, quella di civiltà tecnologica. Oggigiorno, con Nettuno in Acquario, le nostre maschere si chiamano "nickname". E con esse ogni scherzo vale per tutto l’anno, anche se inganna solo chi lo fa.