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LE INACCESSIBILI VETTE

a cura di Giovanni Pelosini
 

Il fanciullo guarda e vede la montagna.

L’uomo guarda e vede infiniti particolari,

ma non vede più la montagna.

Il saggio guarda e vede ancora la montagna.

 

Più le vette sono inaccessibili, più i picchi sono scoscesi e pericolosi, più l’uomo ne è attratto.

Le montagne più alte sono da sempre il simbolo antico dell’ascesi, la metafora dell’arduo sentiero che conduce al cielo, alla liberazione dai cicli eterni che ci legano alla materia.

La montagna è sacra per sua intrinseca natura e rappresenta simbolicamente il luogo in cui il mondo intero si mostra per ciò che veramente è; come se l’altitudine estrema aprisse all’occhio umano orizzonti infiniti oltre i limiti della realtà ordinaria, oltre i confini dello stesso universo.

La montagna nei miti di ogni epoca e cultura è la dimora eletta degli Dei, il luogo della Terra più vicino al Cielo, ovvero la parte del Cielo più prossima alla Terra e quindi più raggiungibile.

Il monte Olimpo nell’immaginario collettivo è ancora il luogo più sacro del pianeta, dove solo gli eletti fra gli uomini possono ambire di essere chiamati a vivere. E questo spiega l’oggettiva difficoltà nel raggiungere tale obiettivo, in quanto sono pochissimi gli esseri umani che hanno le qualità e la fortuna necessarie per essere convocati dagli Dei e fare quindi parte della ristrettissima cerchia degli immortali.

 

Talvolta sono l’ambizione e la smania di protagonismo, tanto comune ai giorni nostri, a condurre con superficialità verso vette che appaiono tali solo a chi le osserva dal basso. I picchi delle montagne mondane sono olimpi effimeri e vacui, vetrine che espongono persone come merci, spacciando spesso i mediocri come divi, alimentando l’illusione di un riscatto sociale potenzialmente raggiungibile dai più.

In questo caso la visibilità è ridotta a un’unica direzione: dalla vetta al basso, fino alle piatte pianure, fino alle valli in cui trascinano povere esistenze gli stessi che innalzano i loro beniamini al rango di Numi, quegli stessi a cui è concessa soltanto una superficiale visione di quel presunto “Olimpo”, in cui i cosiddetti Dei mostrano i medesimi vizi degli uomini.

Eppure il profondo significato simbolico della vetta della montagna è quello di un luogo da cui lo sguardo può essere lanciato verso l’alto, per andare oltre i confini del mondo, oltre il noto e l’ordinario, oltre la Materia stessa.

 

A tali vette l’uomo spesso giunge in solitudine e in silenzio, rispettando la sacralità del luogo e in virtù della sua lunga esperienza. Il Tarocco dell’Eremita incarna tale archetipo, raffigurando un vecchio saggio che cammina con l’aiuto di un bastone ed illumina il sentiero con una fiaccola. Con prudenza l’anziano si muove fra i sassi della montagna, consapevole dei pericoli che può trovare su quel cammino.

Il suo cammino è ovviamente simbolico, e pertanto interiore e iniziatico. Non per questo sarà meno arduo ovvero privo di rischi.

Per aspera ad astra, si diceva anticamente, e certamente, proprio nelle stesse difficoltà del Sentiero, nelle capacità e nelle competenze necessariamente sviluppatesi per superarle, sono racchiuse in nuce le abilità e le qualità per salire verso sulle più alte impervie vette, trampolino per le stelle.

 

Ma la vetta della montagna è molto di più di un tappa essenziale per l’individuo che si dedica alla scoperta della propria spiritualità. Il sacro monte si spinge verso l’alto perché è l’asse del mondo intero. Esso esprime la direzione polare: tutto l’universo gli ruota intorno, tutte le stelle.

I Deva e gli Asura, simbolo dell’eterno contrasto degli opposti nella mitologia indiana, fanno ruotare l’asse del mondo nella cosmogonia del frullamento dell’Oceano di Latte. I Deva (Semidei) e gli Asura (Demoni) lottano dalle due rive opposte dell’oceano facendo il tiro alla corda con il grandissimo serpente Vasuki avvolto a spirale intorno alla vetta del monte Mandara.

I Deva tirano il serpente dalla parte della coda e gli Asura dalla parte delle nove teste di Vasuki. Da questa mitica e simbolica tenzone il latte dell’oceano primordiale viene frullato dal monte sacro, e tutto intorno schiumeggia, come mitica panna montata, tutto l’universo, le stelle e le spiraliche galassie.

L’asse del mondo gira e la creazione ha inizio.

Così appaiono sacri il monte Alborj in Persia, il monte Meru nel nord dell’India, il Qâf in Arabia, il Montsalvat nelle mitiche terre di Artù, le Colline Nere dei Lakota, le vette dell’Himalaya, il Fujiyama in Giappone, la Roccia di Gerusalemme, e tanti tanti monti che le tradizioni popolari di tutto il mondo hanno venerato con rispetto.

La vetta della montagna è il simbolo dell’asse universale, come l’albero Yggdrasyll della mitologia nordica, come il sacro Onfalo di Delfi, ombelico del mondo, come l’albero che diede il legno della Croce.

La vetta della montagna è il sacro luogo della verità, il Satyaloka, porta d’accesso verso le dimensioni superiori dell’esistenza.

 

Scrive il grande appassionato di montagne Domenico Rudatis (Liberazione, 1985):

Gli antenati dei più lontani antenati sentivano che la madre era presso di loro, e che il padre stava sopra di loro. Hanno guardato in alto. E contemplando le montagne hanno sentito che le montagne erano lo sposalizio del cielo e della terra!

L’autore, dopo una vita intera dedicata alla montagna afferma che il segreto della vetta sta nel passare attraverso l’ignoto per pervenire alla rivelazione della “verticalità”. Un concetto sottile ed acuto come è appunto la vetta di una montagna, e che esprime una conoscenza assolutamente soggettiva.

L’alpinista Domenico Rudatis ha ben compreso che chi, come lui, mira ad una meta elevata, affronta rischi, pericoli e sofferenze senza esitare, perché ogni alpinista può praticare con gioia questa sublimazione degli sforzi necessari al raggiungimento della vetta. Eppure questo raggiungimento della cima della montagna, che simboleggia la liberazione, è soltanto un mezzo e non la vera essenza della liberazione stessa.

Nello stesso modo la sublimazione della sofferenza può essere un mezzo per progredire spiritualmente, ma non può essere mai lo scopo di tale progresso, come affermano in vari modi tutti i grandi mistici.

Quindi la liberazione non può essere mai una fuga da se stessi, piuttosto un riconoscimento attraverso la conoscenza soggettiva che la meditazione, il silenzio, l’ambiente delle vette favoriscono. In tale accezione le forze avverse che si frappongono alla liberazione sono gli interiori ostacoli, simboleggiati dalle difficoltà incontrate dall’alpinista nella salita alla vetta: una vera e propria ascesi fisica e spirituale.

 

Il piacere di raggiungere la cima di una montagna, dopo tante fatiche, rende lo scalatore partecipe di un vero e proprio incantesimo cosmico, in cui egli non è più il centro dell’azione, giacché “il castello incantato nascosto nella montagna è l’inconscio”. Per questo forse, nonostante i grandi sforzi necessari, l’uomo desidera salire: per vedere più lontano, ma anche per vedere più profondamente dentro di sé.

È un Sentiero duro, e non è adatto a tutti, come ammonisce Nietzsche in “Così parlò Zarathustra”:

Per poter vedere molto è necessario dimenticare se stessi: tale durezza si richiede ad ognuno che voglia ascendere i monti”.




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