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L’AMBIVALENZA DEL GENITORE

a cura di Lidia Fassio
 

Quasi tutti i genitori si trovano a svolgere il loro ruolo abbastanza impreparati; pochi sono quelli che effettivamente conoscono bene il mondo del bambino, informati sulle varie fasi e sull’effettivo compito che andranno ad affrontare, spesso si improvvisano con coraggio, volontà e incoscienza, certi che non vi sia nulla di impossibile, garantiti dal fatto che quasi tutti gli esseri umani l’hanno fatto prima di loro e che, quindi, via via scopriranno ciò che c’è da scoprire.

 

Certo, niente è impossibile nella vita; tutto si può apprendere e, soprattutto lo si può fare “sul campo”, mentre lo si sta vivendo; tuttavia, ci sono alcune insidie in questo ruolo che non sono tanto legate alla crescita del  bambino in sé, ma a quello che il bambino con i suoi comportamenti va ad evocare nel genitore stesso che a volte può lasciare attoniti e decisamente spiazzati.

 

In effetti, insito nel ruolo ci sono da affrontare problemi del tutto nuovi, che si riferiscono alla diversità di cui ogni generazione è portatrice in quanto nata in un tempo diverso e, di conseguenza, influenzata da un altro “spirito dei tempi” e problemi antichi legati ai tantissimi bisogni che i bambini hanno e che devono essere soddisfatti da mamma e papà. 

Le ultime generazioni di genitori, tra l’altro, sono figli dello spirito dei tempi dell’individualismo selvaggio che, se da un lato, ha portato ogni individuo ad essere più consono e rispettoso di se stesso, della sua natura e dei suoi diritti, dall’altro lo ha anche spinto a diventare molto più “egoista”, sempre meno disposto a sacrificare interessi, desideri e tempo e questo non concilia benissimo con tutto ciò che richiede un bambino, soprattutto nei primi anni di vita.

 

E’ qui che spesso i genitori si ingannano: sono convinti di potercela fare ma non hanno un’idea realistica di ciò che accadrà: sognano ed idealizzano il loro bambino, convinti che le cose saranno semplici e che lui si modellerà esattamente sulle loro esigenze. La realtà però è molto diversa poiché la logica vuole che siano loro ad adattarsi alle esigenze del bambino, sacrificando a lungo la loro vita personale che sarà così più spezzettata e frammentata con molto meno tempo per le attività che prima garantivano una liberazione dallo stress e che venivano considerate conquiste non più da mettere in discussione.

 

In effetti, la grande differenza tra il passato e il presente sta nel fatto che mentre un tempo i figli venivano visti come una sorta di realizzazione del genitore, oggi questo non accade più, o meglio, è difficile vedere questi contorni nell’immediato in quanto, la nascita di un bambino sembra in realtà bloccare i sogni di realizzazione poiché i tempi diventano esigui, c’è un costante investimento energetico e, soprattutto le madri, si trovano schiacciate tra il loro nuovo ruolo che richiede fatica e ripetitività e la tanto ricercata indipendenza che passa attraverso il lavoro e la professione.

 

A queste difficoltà si aggiungono poi alcune incoerenze sociali che riguardano strettamente il bambino che  da un lato viene visto come un qualcosa di prezioso (gli stati e i comuni mettono a disposizione fondi per le famiglie che fanno figli), dall’altro però non deve creare troppo scompiglio alla coppia stessa che nutre l’idea di poter continuare la vita di sempre.

 

Infatti, nelle famiglie c’è una tendenza ad entrare in crisi nel momento in cui il figlio o è troppo agitato, o non dorme, o ha problemi, perché ci si sente immediatamente “divorati” ed “esauriti”, in un certo senso, non attrezzati a rispondere ad un costante sovraccarico. Eppure, quasi tutti i bambini, almeno nel primo anno di vita, dormono poco, hanno bisogno di attenzioni continue perché si nutrono della simbiosi con la madre che, di conseguenza, è chiamata a rinunciare a tantissime cose della vita precedente per avere, come gratificazione, la certezza di una crescita sana e sicura per la sua creatura.

 

Le difficoltà sono soprattutto nell’ordine del riposo, del tempo libero e del ritmo di vita e, nel tentativo di mantenere inalterate le cose che si facevano prima, si tende a velocizzare quelli che sono i passaggi che deve fare il bambino, non lasciandolo sperimentare perché questo è dispersivo per i tempi della madre: si vedono spesso madri che sono insofferenti di fronte alla lentezza dei figli; madri che non sopportano che i figli vogliano lavarsi, vestirsi, mettersi le scarpe, mangiare da soli, tutte cose legittime che però non si possono concedere, perché fanno perdere un sacco di tempo al genitore che, invece, deve ottimizzare tutto, bambino compreso.

 

Oggi tutto viene velocizzato e, purtroppo, questa sorte non tocca solo ai frutti e alle verdure che devono maturare in metà tempo, ma anche ai bambini che, del resto, sono i  nostri frutti.

 

Queste difficoltà appartengono all’ordine delle cose pratiche ma vi sono altri problemi che deve affrontare un genitore che sono invece più prettamente psicologici ma non per questo, meno potenti ed importanti.

 

La prima è la sensazione di “essere divorati” che spesso crea grandi conflitti all’interno della psiche genitoriale; da un lato infatti, il genitore sente di dover dare tutto sé stesso al proprio figlio, dall’altro però sente anche di non farcela, e così si trova spesso ad  essere  arrabbiato proprio perché ha la sensazione che non vi siano limiti alle richieste di questa fase e che, tutta quella meraviglia che lo aveva irrorato dopo la nascita del pupo, lascia il posto ad una sensazione di  svuotamento e di incatenamento che lo fa sentire “in colpa”. Soprattutto le donne si sentono male perché si sentono strette dentro al ruolo e nello stesso tempo, si autoaccusano di non essere “buone madri perché non all’altezza” e vivono malissimo il fatto di avere  desideri di aggressività che, in cuor loro, non dovrebbero esserci.

 

E’ chiaro che molti sono i fattori che possono influenzare questa fase: la madre avrebbe particolarmente bisogno di essere sostenuta emotivamente ed affettivamente dal compagno perché, se non sta bene e non viene appoggiata, può sentirsi estremamente sola, insoddisfatta ed infelice ed è proprio questo tipo di  malessere a condurla all’idea di non poter fare bene il suo ruolo di madre. Quando si è in un circolo di stress, ogni nuova richiesta del bambino sembra insostenibile, perché si è già costantemente in riserva.

Le richieste di un bambino sono totalizzanti e vanno a toccare le ferite narcisiste della primissima infanzia, allorchè si sarebbe desiderato avere qualcuno tutto per sé che desse amore e disponibilità incondizionati. Quando sono presenti questi sentimenti si rischia di passare da un eccesso all’altro; dal farsi completamente divorare dai figli, poiché si è incapaci di dire di no e di lasciarli piangere quando è necessario, al non rispondere più alle loro reali esigenze perché si è troppo arrabbiati e ci si sente svuotati e senza energia.

 

Niente come un bambino piccolo è in grado di riportare il genitore nella fase di “ambivalenza” di sentimenti; in effetti, durante i primi anni di vita di un figlio, ci si ritrova a vivere sentimenti contrapposti senza riuscire a gestirli: in fasi di stress la capacità di amare e quella di odiare si affinacano ed appaiono contemporaneamente lasciando nello sgomento chi le prova. In realtà tutto ciò è assolutamente normale in quanto  tutti i rapporti umani sono caratterizzati da ambivalenza. Riconoscere questi sentimenti ed accettarli significa fare passi da gigante nel saperli contenere; è importante quindi non rischiare di dover negare il lato negativo per evitare di interpretarsi come mostri incapaci di affettività.

 

Si  sa che i figli regalano gioie immense e momenti di estrema felicità ma non per questo non sono anche portatori di momenti difficili, in cui non li si vorrebbe vedere, si vorrebbe che stessero zitti e smettessero di urlare e si sa che  ci sono momenti, del tutto legittimi, in cui si vorrebbe che fosse qualcuno ad occuparsi di loro ed avere un po’ di tranquillità e di privacy.

 

Tutto questo è nell’ordine naturale delle cose, eppure molti genitori si sentono morire, pensano di non essere “buoni” e di non amare sufficientemente i loro figli.

 

Un mio insegnante diceva che tutti i genitori, almeno una volta nella loro vita, hanno pensato di uccidere il loro bambino, solo che sono pochissimi quelli che osano ammetterlo poiché questi sentimenti  contraddicono  l’idea di “amore assoluto” che, soprattutto la madre, dovrebbe provare per il figlio.

 

Winnicott nel suo libro “Dalla pediatria alla psicoanalisi” illustra ben diciassette motivi che una madre ha  per odiare il figlio e spiega bene che i sentimenti di ostilità sono sempre presenti e che tutte le madri vivono grossi conflitti perché non vorrebbero provarli e spesso non li accettano perché secoli e secoli di cultura “sull’amor di madre” ci hanno propinato l’amore materno come l’unico puro, totale e incontaminato da sentimenti negativi.

 

Le favole stesse non mostrano mai l’aggressività nella madre, ma la assegnano al ruolo della matrigna, in modo che la madre resti incontaminata.

Essere madri e genitori obbliga ad affrontare questo lato, per cui la soluzione sta nell’accettare i sentimenti negativi. In effetti, non è ciò che si prova ad essere terribile, ma il fatto di non poterlo esprimere e di doverlo tenere dentro tanto da farlo diventare pesante e inaccettabile; è importante dunque poter parlare della propria esasperazione, dello sfinimento che si prova, del senso di colpa e dell’aggressività che sale in superficie: solo se si accetta ciò che si prova si può imparare a modularlo e non permettere che un giorno, prenda il sopravvento sulla ragione.

Accettare vuol dire diventare maggiormente consci dei propri limiti, ammettere che si ha bisogno di aiuto e che, a volte, è importante farsi sostituire in modo da poter ricaricare le pile evitando di arrivare al “sacrificio di sé” che è un sentimento carico di negatività e di rivendicazione.

 

Farsi divorare costantemente come accade ad alcuni genitori è sbagliato in quanto apre le porte al successivo divoramento del figlio stesso che, un giorno, si sentirà suo malgrado di dover risarcire tutto ciò che ha preso a suo tempo.



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