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NON È "QUESTIONE" DI MORALE

a cura di Sandra Zagatti
 

“Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo” (Ghandi)

Ultimamente, la cosiddetta “questione morale” viene tirata in ballo più che spesso, e sempre con fiera sicurezza, come il piatto forte di un menù dialettico altrimenti destinato a risultare insipido. Peccato che, di per sé, il continuo rimando a tale argomento sia ormai più simile ad un sontuoso – ma vuoto – vassoio di portata. E ben lo sapevano i filosofi di ogni tempo e cultura che, pur disquisendone in modi diversi, mai osarono descrivere se non indirettamente concetti nobili, complessi e cruciali come, appunto, la morale e l’etica.
Ma questa non è un’era di filosofi, men che  meno lo è la nostra società: povera di contenuti ma inflazionata di contenitori. E mi spiace che un’affermazione del genere possa apparire qualunquistica: so bene che le persone non sono tutte uguali, come non tutti vuoti sono i discorsi che possiamo leggere o ascoltare; ma non riesco più a negare l’evidenza per cui il panorama generale – quello della maggioranza di chi scrive o legge, come di chi parla o ascolta – sia tanto desolante in termini di contenuti quanto, prima ancora, deserto di valori.

Sta di fatto che Saturno in Bilancia sembra manifestarsi, almeno per il momento, come istanza moralizzatrice più che come realtà etica (culturale o comportamentale) da riaffermare. E non è certo una cavillosa sfumatura, quella tra vesti giudicanti e dimostrative: la differenza, insomma, sta nell’approccio diretto o indiretto attraverso cui la morale si esprime; laddove il secondo può affiancare, ma non dovrebbe sostituire, il primo.
Eppure, non solo in pratica ma anche in teoria sembra che la morale non riesca a rimanere “integra”, assumendo una dualità evidentemente compresa in ogni dinamica esistenziale. Già per Aristotele la virtù morale partiva dal carattere ma, a differenza della virtù intellettuale, si attuava mediante scelte comportamentali adattabili alla realtà contingente e che rappresentavano sempre il “giusto mezzo” fra due estremi moralmente meno preferibili. Hegel considerava la moralità l’aspetto soggettivo della condotta (l’intenzione e la motivazione), mentre l’etica era per lui l’insieme di valori concretizzati realmente (le istituzioni civiche, la famiglia, la società); ed anche Kant, per cui i comportamenti etici erano direzionati dalla ragione, distingueva tra l’imperativo “ipotetico” in cui l’azione si adattava al fine, e l’imperativo “categorico” per il quale non esisteva patteggiamento. Lo stesso Kant scrisse che la moralità non serve ad orientare il nostro agire per renderci più felici, ma per renderci “degni” di una maggiore felicità, il che appare tanto giusto quanto, ancora una volta, ambiguo. Cosa significa, in pratica?

Non è mai stato facile rispondere e figuriamoci se può esserlo oggi: da un lato, infatti, applicare dottrine morali solo al giudizio sui comportamenti altrui può risultare presuntuoso o ipocrita, come risulta ingenuo pensare di poter contare su riferimenti morali assoluti ed applicabili sempre e comunque ad ogni nostro comportamento, senza mai nemmeno un dubbio… Mentre proprio il dubbio è alla base di ogni scelta che voglia dirsi – e soprattutto farsi – etica, dimostrando paradossalmente maggiore coerenza morale delle certezze, sempre a rischio di integralismo.
Il paradosso, tuttavia, si dimostra biunivoco nel momento in cui il dubbio individuale si trasforma, collettivamente, in una relatività di valori. Non si può negare il legame delicato ma inevitabile tra moralità e cultura: ogni civiltà, in tempi e luoghi diversi, elabora un proprio sistema di valori, che possono provenire da dettami trascendenti o, sempre più spesso in epoca moderna, corrispondere a consuetudini consolidate e costumi condivisi ma variabili, nonché sostituibili, più o meno in fretta. In fondo, almeno sul piano etimologico, etica e morale sono lo stesso termine derivato però, rispettivamente, dal greco e dal latino. Lo stesso termine, appunto, ma non proprio lo stesso significato: “èthos” infatti è traducibile come costume, abitudine, indole, e la stessa traduzione si presta per “mos, moris” che tuttavia, avendo una radice in comune con “misurare” o, per alcuni, con “muovere”, assume un senso dinamico più sottile, relativizzandosi maggiormente come regola e riferimento che indirizza la libera scelta. Il che, detto in parole povere, ci porta a concludere ciò che sappiamo fin troppo bene: sarebbe comodo se potessimo riferirci a norme sicure, universalmente riconosciute ed immutabili, per decidere cosa fare e come farlo; comodo ma contemporaneamente pericolosissimo confondere o persino far coincidere le norme morali (personali e interiori) con le “leggi” (sociali, istituzionali, comunque esterne).

Resta il fatto che ognuno di noi ha una cultura, un’educazione familiare, un’esperienza e un carattere che convergono a definire i propri canoni morali, ma vive anche dentro una società storicamente caratterizzata, giuridicamente strutturata, e per quanto possibile mantenuta in equilibrio anche con leggi più o meno concordate ma comunque necessarie, oltre che con tante convenzioni, abitudini, mode o costumi da adottare (e adattare) nella realtà quotidiana. E’ vero e lo sappiamo tutti; tant’è che distinguere tra bene e male è più difficile di quanto sembri, quando passiamo dalla teoria alla pratica. Proprio Nietzche, nel suo “Al di là del bene e del male”, scrisse che “non ci sono fenomeni morali, ma solo un’interpretazione morale dei fenomeni”. E anche questo è vero… ma non è tutto. Non basta, se fa rientrare dalla finestra quella soggettività culturale che rende qualsiasi interpretazione morale autoreferenziale, perché dipendente dall’interpretazione stessa della moralità; e se, aggiungerei, contemporaneamente spalanca la porta a soluzioni alternative dogmatiche.

Lo stiamo vedendo da diversi mesi, ormai. Il dibattito in corso nel nostro degradato Belpaese, e in particolare sui suoi maggiori rappresentanti politici, allarga la “questione morale” a questioni giuridiche che, pur essendo ovviamente da valutare e definire, rischierebbero un protagonismo critico nel momento in cui passassero l’informazione legalità = moralità. Come se bastasse alzare a 300 il tasso critico di colesterolo per farci diventare tutti più sani. O se fosse automatico giustificare la British Petroleum, che era a conoscenza dei rischi strutturali delle sue piattaforme, solo perché la società aveva le autorizzazioni a trivellare nel Golfo del Messico. O, ancora, fosse più sopportabile l’idea che le multinazionali del cacao continuino ad usare bambini come schiavi nelle piantagioni, solo perché hanno avuto più di una proroga da quando, dieci anni fa, è emerso un tale scandalo.
Ma a proposito di scandali. La dissonanza tra Plutone e Saturno si è espressa assai bene (si fa per dire) nel delicato connubio tra emersione di verità nascoste, intercettazioni di segreti, cadute di maschere e rinvenimento di scheletri negli armadi da una parte, e la legittima ma implacabile onta rifiutante, condita della volontà punitiva di giudici autorizzati o improvvisati, dall’altra parte. Evidentemente, la vista del “re nudo” è talmente insostenibile da trasformare in fretta ognuno di noi in Savonarola, decisi a coprirlo col manto del peccato e a condannarlo all’esilio, non prima di averne esposto le vergogne al pubblico dileggio e disgusto: ci sentiamo tutti più “perbene” quando possiamo identificare, circoscrivere e isolare il “male”, e così distaccarcene… Ma sia chiaro che non sto parlando di un caso specifico o del caso italiano per eccellenza, né di gruppi a favore o contro, e nemmeno di dinamiche soltanto locali. Sto parlando più in generale di un atteggiamento che mi pare sempre più diffuso negli ultimi tempi e che presenta estremi analogamente pericolosi ed entrambi antagonisti a Saturno: l’ombra invisibile di un Plutone che scava nelle oscurità altrui per meglio insabbiare le proprie; e l’evidenza di un Urano ancora episodico e altrettanto “localizzato”, ma già violento e ansioso di ribellione, come purtroppo stiamo vedendo in Tunisia, in Albania, in Egitto.

In un momento di crisi di valori, in cui molti riferimenti istituzionali stanno sgretolandosi, perdendo la loro autorevolezza ed anzi abiurando nei fatti la loro fondatezza, in cui nessuno ha più voglia di andare a votare perché nemmeno sa a chi affidare il ruolo di rappresentarlo e tutelare i propri interessi… in questo clima di disincanto, il rischio di una ribellione morale autentica e consapevolmente strutturata è meno realistico di proteste estemporanee ma rabbiose, con scarsi esiti utili anche senza espressioni violente comunque possibili. Ma c’è un rischio “non violento” eppure altrettanto insidioso da considerare, forse persino più subdolo perché più vile: che il disincanto sfoci in una rancorosa indifferenza nei confronti della dignità sociale, del rispetto per le regole civiche e per quei princìpi che sono il fondamento delle moderne democrazie, e che dovremmo onorare e difendere se non altro per il sangue (non nostro) che una simile conquista ha richiesto. Insomma il rischio di confondere il disprezzo – pur motivato – per i rappresentanti delle istituzioni con un disprezzo tout court per le istituzioni stesse.

D’altra parte, e torno in Italia, sfido chiunque a ricordare l’ultima volta che abbiamo visto o ascoltato i nostri politici, di ogni schieramento, confrontarsi foss’anche in modo acceso su opinioni, programmi, proposte, e non solo scontrarsi sul terreno personale. Ma se è legittimo pretendere un esempio morale da chi ricopre incarichi pubblici o cruciali, e quindi agisce in nome e per conto di molti se non di tutti (e qui ci metto, assieme ai politici, tutti i vertici dell’industria, dell’imprenditoria, delle istituzioni religiose, finanziarie, sanitarie e giuridiche), può essere considerato altrettanto legittimo seguire l’esempio opposto e sentirsi autorizzati a fregarsene di leggi collettive e filtri etici personali per concentrarsi prosaicamente sugli affari propri; e anche qui ci sarebbe molto della dissonanza Saturno-Plutone, con lo zampino di Giove e Urano nel segno più egoico dello Zodiaco.
“Tanto lo fanno tutti!”… “Se lo fanno loro, posso farlo anch’io!”… “A essere troppo onesti si diventa coglioni, altro che!”… Io li sento certi commenti da parte dei ragazzi, tra adulti che bevono un caffè al bar, li leggo sui forum della Rete; e rabbrividisco. Perché non ho mai approvato che il fine giustifichi i mezzi, ma quando manca anche il fine, i mezzi possono essere solo distruttivi. E se i furbetti, i disonesti e tutti gli immorali o amorali disseminati un po’ ovunque nei posti più “in alto” della nostra società vengono presi ad esempio o come alibi dal “basso”, questa è davvero la fine di ogni cultura etica; e in una società in cui la legge stessa è ridondante di meandri burocratici e diramanti contraddizioni da risultare tanto rigidamente incartata quanto facilmente scansabile, su cos’altro potremmo contare? In mancanza di coscienza personale, di un’educazione civica ed ecologica insegnata nelle scuole o trasmessa come patrimonio di valore dai genitori ai figli, in mancanza di un collegamento autentico tra i valori pubblicamente ostentati e collettivamente condivisi e quelli privatamente custoditi e individualmente dimostrati… potremo anche continuare a considerarci una società civile, moderna e democratica, ma torneremo ad essere dei primitivi; anzi, degli ominidi terminali non più erectus e tanto meno sapiens.

Ciò che voglio dire, insomma, e che forse non so esprimere ma che mi inquieta profondamente, è che non sempre uno sciame sismico scarica l’energia tellurica: a volte ne potenzia o preannuncia la scossa fatale.
Fuor di metafora, abbiamo “mediaticamente” condiviso lo scandalo di Wikileaks, della pedofilia nella Chiesa, dei festini ad Arcore, delle ville a Montecarlo e dei paradisi fiscali in genere; e giustamente, davvero moralmente ci siamo indignati e lo siamo tuttora. Ma erano scandali legati al potere politico, istituzionale e finanziario più esposto, già sospettato e respinto, come nauseabonda fanghiglia galleggiante dai pozzi neri di Plutone. Perché invece nessun TG ci informa più del disastro ecologico nel Golfo del Messico e degli altri incidenti, petroliferi e persino nucleari, a Porto Torres o in Nigeria? Perché nessuno fa niente per quei bambini ancora schiavizzati e torturati nelle piantagioni di cacao, mentre i nostri avatar pubblicitari continuano a chiedersi “che mondo sarebbe senza Nutella”? Perché solo la libera informazione della Rete ha divulgato la verità sulla falsa pandemia dello scorso anno, pianificata dalle case farmaceutiche per vendere vaccini (alla faccia dei bilanci sanitari di molti Stati), eppure in questo autunno è già ripartita la campagna di vaccinazione anti-influenzale, con immediate e non di rado imposte adesioni? Perché ho dovuto scoprire su Facebook l’orrenda pratica di “stupro correttivo” imposta alle lesbiche del Sudafrica con tanto di sevizie, torture, umiliazioni indicibili? Perché la sparizione di bambine o dissidenti, in Cina, e i continui oltraggi ai diritti umani da parte di questo colosso economico e militare non vengono divulgati, non generano proteste vere, istituzionali, incisive? E potrei continuare con l’elenco di tanti e ben altri scandali rispetto a quelli che riempiono le cronache, ma per i quali nessuno digita una parola sulla tastiera. Dov’è Saturno in Bilancia, qui? Dov’è il rigore, la giustizia, l’identificazione di peccati e vergogne… dov’è la questione morale?

Ciò che appare sconfortante, e appunto preoccupante, è questa deriva “moralistica” e “moralizzante” sostenuta da un’arroganza partigiana, più che da un’autentica e stabile coscienza etica. Mentre la speranza di un ripristino di equilibrio tra valori e comportamenti collettivi non può che passare attraverso una rigenerazione interna alla società: cioè attraverso l’individuo, il suo personale cambiamento e miglioramento, il suo responsabile dubbio e la sua conseguente, coerente, libera scelta.
E proprio sottolineando questo termine – scelta – voglio concludere, tornando ancora una volta alla dialettica tra Saturno e Urano, che se continuerà ad esprimersi come scontro tra “restaurazione” e “rivoluzione” non potrà portare, a mio parere, niente di buono e tanto meno di giusto. L’equilibrio di cui dicevo è ben espresso dai piatti della Bilancia, ma se su un piatto c’è l’Io con i propri valori, davanti e come contrappeso non ci sono “gli altri” (i cattivi, i colpevoli, i giudicati), bensì sempre l’Io: con i propri comportamenti.

“Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione.” (Luca 12,49-51/53)
Differenziarsi. Essere diversi; assumersene la responsabilità e agire in quanto tali. Questo e non altro è il ruolo della morale, se ancora vogliamo intenderla come filosofia pratica, e non solo speculativa, del vivere.




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