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LA BELLA E LA BESTIA : TRA NUOVA TECNICA E ANTICA MAGIA

a cura di Lorenzo Pelosini
 

Agli Oscar del 1991, si verificò un evento senza precedenti. L’animazione Disney è stata essa stessa l’origine dei primi, nonché migliori, film d’animazione della storia. Eppure, per più di mezzo secolo, il film popolati dai simpatici animali antropomorfi e principesse dello Zio Walt vennero considerati un sottoprodotto della cinematografia, una sorta di mutazione dei lungometraggi tradizionali – interessante ma sempre inferiore alla matrice originale. Ma ecco che all’alba degli anni ’90, il già impressionante curriculum della regina dell’animazione fa un salto quantico. La Bella e la Bestia, trentesimo lungometraggio animato della Disney, viene nominato all’Oscar come Miglior Film, a fianco dell’iconico Silenzio degli Innocenti.

Per comprendere bene la portata di questa nomina, c’è da ricordare che all’epoca la categoria Miglior Film d’Animazione non esisteva affatto. Fu infatti creata solo dieci anni più tardi, giusto in tempo per far accaparrare alla Dreamworks (acerrima rivale della Disney) il primo Oscar per l’animazione grazie a Shrek (spietata parodia della favola Disney, ironia della sorte!). Ma prima di quel momento, l’Academy si sentì così colpevole nel non poter elogiare la grandezza di La Bella e la Bestia, che piuttosto che voltare la testa, sfidò le convenzioni e lo affiancò ai lungometraggi in carne e ossa. Per quanto il premio andò poi al Silenzio degli Innocenti, la cosa importante da notare è che, il film d’animazione non sfigurava affatto accanto ai suoi illustri candidati in carne ed ossa. Questo perché il film diretto da Gary Trousdale e Kirk Wise è qualcosa di mai visto prima e raramente replicato in seguito.

In una parola, il film è adulto. Certo, la storia è classica che più non si può. Una principessa che si sente inadeguata nel piccolo mondo in cui vive e cerca il suo principe e la sua identità altrove finendo in un’avventura a lieto fine piena di personaggi colorati e canterini. Niente di più Disney, giusto? Eppure, per la prima volta l’approccio a questi temi fa emergere il dramma umano del vero isolamento, la profondità tragica del rimpianto, del terrore del futuro, della morte e del morire da soli. Ad ogni angolo, per la prima volta, la vera morte sembra incombere sui personaggi, che ci appaiono intrinsecamente fragili e umani, pronti a perire di una banale polmonite. Pensiamo al padre Maurice, povero paffuto ometto affatto a suo agio nei boschi e tantomeno in città, a Belle, parimenti preda di uomini e lupi, o perfino all’amabile Bestia, tanto temibile e massiccia all’esterno quanto piccola e fragile all’interno.

E la Bestia più di tutti, si trasforma per magia nel personaggio più straordinario, una creatura cancerina, dalla scorza dura come la roccia quasi impenetrabile, eppure, da subito palesemente usata come guscio per proteggere il fin troppo molle interno. Le favole Disney sono spesso animate da giovani aitanti principi e leggiadre principesse, che guardano fiduciosi al futuro. In altre parole, sono parte di un mondo di favola e, in un certo senso, costruiscono il loro futuro roseo essi stessi con la loro speranza canterina. Ma la Bestia è l’anti-principe. Una volta giovane e bello, ha trasformato con le sue mani la sua stessa vita in un inferno, rifiutando la fata che bussò alla sua porta, travestita da anziana. Il suo contatto con la magia non gli ha portato speranza o rinascita, come per Cenerentola o la Bella Addormentata. Nel suo caso, la magia stessa lo ha maledetto e cacciato dal paradiso delle favole come un biblico Lucifero, nel mondo reale dove la solitudine è tangibile come la pietra. La Bestia non abita la favola che lo circonda, la osserva dalla finestra col suo specchio, come noi osserviamo i film a lieto fine nelle ore buie della nostra vita. La sua caduta dallo stato di grazia, è quanto di più vicino alla condizione umana e quanto di più lontano dalla favola si possa trovare in un film Disney. La Bestia non crede più, perché le favole e i lieti fine sono per i principi, non per gli orchi, come recitava Shrek.

Questo sincero dolore viene trasmesso allo spettatore da quella che, se mi si concede la licenza, chiamerei un’ottima recitazione. L’animatore Glen Keane, disegnatore della Bestia, gli fornisce un’espressività a tutto tondo, lontana dalle esagerazioni goliardiche disneyane e portatrice di un tormento interiore e di un buon cuore mai del tutto conosciuto. Memorabile, a questo proposito, il mutamento del volto della Bestia mentre tiene la controparte Gaston (bello e crudele, così come lo era lui un tempo) sospeso sopra l’abisso e lentamente inizia a provare pietà per quel povero crudele ometto. Il suo volto muta, come quello di un grande attore che retrocede da Hyde al buon Jeckill dopo mesi di prove davanti allo specchio. Gli occhi si allargano e si riempiono di umanità come un lago sotto la pioggia.

Ad alleggerire il tono, troviamo invece il set di indimenticabili personaggi comici come il candeliere Loumiere, l’orologio Tockings (Cogsworth in originale), Mrs. Brick (Potts) e molti altri. Non solo il loro apporto non è così stucchevole da eliminare il dramma di fondo, ma essi si sposano perfettamente col tema della storia. La Bestia ha perso la sua umanità trattando il prossimo come un oggetto e quindi, tutti i suoi servitori sono appunto divenuti oggetti. La loro forma e le loro gag sono certo comiche, ma il fatto che non siano nati teiere e candelieri, ma umani, stende su di loro quel velo di splendida malinconia che avvolge l’intero film.

Questo tema ci porta direttamente al remake live-action di quest’anno, sempre dal titolo La Bella e la Bestia. Dopo una febbricitante attesa e una campagna pubblicitaria senza precedenti che esclamava a gran voce “Be Our Guest” (“Stia con noi” in Italiano), il film esplode al box office già nel primo weekend e diventa il fenomeno finanziario dell’anno nel giro di una settimana. La Disney esulta e mette in cantiere altri remake live-action dei suoi grandi classici, stilando un calendario che arriva da qui a oltre il 2020 e che comprende perfino Aladdin e (forse!) La Sirenetta. Ora, gran parte del cosiddetto hype e dell’euforia legata all’attesa di questo film sta nel astutissimo casting. Belle è al contempo il sogno romantico e il modello da imitare di tutti i giovani e le giovani nerd cresciuti negli anni ’90. E c’è solo una persona a Hollywood che incarna entrambi questi fattori: la splendida e posata Emma Watson, passata da brutto anatroccolo a elegante cigno attraverso la saga di Harry Potter e ora pronta a spiccare il balzo nell’età adulta. La dolcezza innata del sorriso di Emma è forse la nota più soave di tutta questa nuova produzione. Ma malgrado il suo amabile magnetismo su ambo i sessi, il film manca ancora di qualcosa di essenziale.

La pellicola è popolata da star di prim’ordine, Emma Thompson come Mrs. Brick, nientemeno che Ewan McGregor come Loumiere e perfino il mostro sacro Ian McKellen come Tockings. Si aggiungono Kevin Cline, Luke Evans e Dan Stevens. Malgrado ciò, il problema di fondo resta, paradossalmente, quello della recitazione, o, in un certo senso, della regia. Ogni istante del film di animazione è costellato da pura emozione, sia essa speranza, dolore o un misto delle due. Complice la musica del mitico Alan Menken, La Bella e la Bestia originale è uno di quei film che ti afferra per le corde emotive a prescindere da sesso o età. Ma nel remake di Bill Condon niente brilla. I seppur grandi interpreti sono compressi in una recitazione macchiettistica e imprigionati nella forma francamente imbarazzanti di teiere e orologi digitali. Tralasciando il fatto che la presenza di personaggi a forma di oggetti casalinghi era nata per un film a cartoni e che qui risulta stucchevole, stonata e soprattutto insensata, questo approccio fa anche soffrire la recitazione di insieme. Si pensa di più a stupire con qualche fuoco d’artificio digitale e ci si dimentica, di nuovo paradossalmente, della dimensione umana. Anche fra Belle e la Bestia, questa volta, c’è a malapena un briciolo di chimica. Emma fa del suo meglio e Dan fa altrettanto, considerato che è coperto di una pelliccia digitale, ma semplicemente i loro sguardi e il crescere del loro affetto l’uno per l’altra sono facilmente dimenticabili. Le sole cose che si ricordano sono i numeri musicali, non perché notevoli, ma perché perfettamente ricalcati su quelli originali, come sempre ben più emotivamente efficaci.

Emerge un fatto di fondo, questo film non è fatto col cuore o, quantomeno, non quanto l’originale. Più di tutto, si tenta ancora una volta di replicare quella magia che è per definizione un fulmine che cade non più di una volta nello stesso punto, di riesumare Da Vinci dipingendo una decente imitazione della Monna Lisa. Nel complesso, il film non è certo il diavolo incarnato, né il peggiore dei remake di questa nostra epoca. Ma per citare la migliore recensione che ho sentito in proposito (espressa dal mio cinefilo coinquilino all’uscita dal cinema), “it’s kind of like the original, but worse” – “ è tipo l’originale, ma peggio.”




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