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WORK ADDICTION - LA DIPENDENZA DA LAVORO

a cura di Elena Cartotto
 

Parlare di dipendenze porta subito alla mente concetti legati a sostanze stupefacenti o ad affetti sbagliati e travianti perché la schiavitù da droghe e da emozioni forti e distorte costituisce ambito privilegiato di indagine e analisi psichica, specialmente nella società liquida odierna, per dirla con Bauman.

Non sono, però, solo queste le dipendenze a cui l’essere umano può soggiacere. Ve n’è una che passa piuttosto inosservata nei nostri tempi forse perché addirittura associata a titoli meritori e a capacità fuori dalla norma. Trattasi della dipendenza da lavoro sdoganata dagli psicologi come “Work Addiction” o “sindrome da workaholism” deriva assolutamente logica per un mondo troppo veloce, in continua evoluzione, dove i cambiamenti di oggi hanno già in sé i limiti di domani; un universo in continuo fermento produttivo e consumista, che non dorme mai e in cui perfino il cibo è diventato fast, per non parlare dell’atto sessuale più simile ad una compulsione da soddisfare nell’immediato che legato ad una reale voglia di intimità e di piacere.

È chiaro che nel XXI° secolo dei forti, belli e vincenti, icone dello spazio pubblicitario e virtuale, ma solo perché si fa finta di non vedere i milioni e milioni di diseredati della terra, anche l’uomo comune, il vicino di casa, l’impiegato delle poste possono diventare da un giorno all’altro un fenomeno mediatico con tanto di riflettori puntati addosso, applausi, complimenti e molti soldi.

Per chi è cresciuto con l’ansia da prestazione perché in casa si parlava solo di lavoro, o con complessi affettivi irrisolti dovuti ad una strana convergenza di risultati scolastici e attenzioni genitoriali, che mancavano col mancare dei risultati, il dover competere oggi non più solo con i propri fantasmi infantili, ma anche con l’esercito di incapaci sdoganati dalla spazzatura di web e tv messi assieme, diventa un problema. A volte c’è il ricordo familiare di grossi problemi finanziari e di vita quotidiana che spinge a lavorare indefessamente per allontanare l’incubo che una situazione del genere si ripeta, o ancora alla base del lavoro no-stop c’è l’idealizzazione di uno dei genitori, la cui aura di perfezione è direttamente proporzionale alla realizzazione professionale.

Il maniaco del lavoro si impone di diventare qualcuno attraverso ritmi di attività massacranti, programmi rispettati fin nei minimi dettagli, presenza in ufficio 24 h, capacità di spettacolarizzare le proprie capacità ed idee. Ci prova con tutte le forze ad innalzarsi e se proprio non potrà emergere come personaggio, sarà comunque il migliore del suo ramo. La sua individualità non dipende da ciò che è, ma uranianamente da ciò che fa, perché è sulla sua efficienza, sulla sua capacità di produrre, che si sente giudicato. Già nel 1995 Leth poneva l’ardua questione del dilemma dell’impiegato: “Per avere un buon tenore di vita bisogna guadagnare un buon salario. Per guadagnare un buon salario non puoi avere una vita”.

Spesso una vita il workaholic non la vuole nemmeno avere, ma non si pensi che sia pienamente cosciente del proprio disagio perché le sue doti straordinarie di accanito lavoratore vengono incensate da capi, colleghi, collaboratori e da chiunque naturalmente possa guadagnare e speculare su quelle stesse doti, magari vivendo quella vita che al workaholic stesso è impedita dalla sua sindrome. Uomo o donna che sia può anche scegliere di sposarsi e avere dei figli, ma la famiglia non sarà mai al primo posto per questo soggetto, per lo meno nel suo cuore, anche se cercherà di rassicurare chiunque mostrando un’immagine di sé e dei propri affetti vincente, come quella di chi non ha alcuna problematica interiore: nel suo caso il mostrare agli altri è un mero strumento distraente al fine di convincere se stesso/a di una normalità che non esiste.

Il lavoro servirà a questa persona per alleviare l’ansia se non addirittura l’angoscia, colmare i vuoti, aumentare un’autostima rasoterra perché più fa, più si sente qualcuno: il workaholic sembra molto sicuro di sé, ma è un uomo o donna dai piedi d’argilla. Basta un soffio a farlo cadere, a sradicare le sue certezze, ad innescare una depressione: un insuccesso, un mancato riconoscimento, un complimento stentato.

Il workaholic è sempre orientato verso una meta, ha costantemente un obiettivo da raggiungere e qualcosa da fare: il tempo libero improduttivo non lo seduce, anzi lo manda in panico. Chi ha studiato il fenomeno parte dalla rilevazione di una fissazione tale sul lavoro da parte di questo soggetto che presto si tramuta facilmente in un disturbo psichico vero e proprio di natura ossessivo-compulsiva, come ossessivo-compulsivi sono i sintomi che lo manifestano. In evidenza c’è la mania di controllare tutte le situazioni e le persone, sia per verificare che ogni attività venga svolta alla perfezione, sia per carpire informazioni su possibili rivali e su come viene giudicato il proprio operato.

È impaziente, irrequieto, va sempre di corsa, parla veloce ed è poco tollerante ai cambi di programma altrui, ma pretende che i suoi siano accettati come fossero leggi dello Stato. La sua capacità di provare emozioni, col tempo viene fortemente compromessa e riesce a raggiungere uno stato di piacevole eccitazione solo smaltendo più lavoro e facendo più cose a discapito della propria vita privata e perfino della cura di sé. Non riesce a trovare più il tempo per fare nulla: dormire e mangiare diventano obblighi, come il dover scegliere con maggior cura il proprio abbigliamento. Tutto viene visto come un tentativo di strapparlo dal suo habitat che è quello meramente professionale. Può cominciare ad avere perfino vuoti di memoria o a risultare palesemente assente in qualunque conversazione non riguardi il lavoro.

Da un punto di vista cognitivo lo psichiatra Rohrlich individua nel workhaolic la tendenza a coltivare visioni e credenze assolutiste e proprio per questo fortemente limitative: nei momenti di maggior successo si sente il migliore, quando non riesce a mantenere i suoi standard si percepisce come il peggiore. Trova che la sua vita sia stressante, ma è convinto che non esista un altro modo di vivere, che lui non possa fare nulla per cambiare se stesso e che infondo la felicità, andando in controtendenza allo spopolare delle filosofie orientali, sia è una questione esteriore che dipende dagli altri e dalla loro approvazione nei propri confronti.

Il workhaolic ha diverse caratterizzazioni: c’è l’iperambizioso che non guarda in faccia a nessuno pur di imporre il proprio operato e crescere nella scala sociale, il competitivo ad oltranza che vuole a tutti i costi veder riconosciuta la propria supremazia, l’insicuro che cerca nei superiori la continua approvazione per sentirsi qualcuno, e il colpevolizzato per il quale l’eccesso di lavoro è una sorta di droga che gli impedisce di pensare alle esperienze negative che ha vissuto e sta vivendo.

Astrologicamente questa sindrome può accompagnarsi ad una carenza affettiva di base come potrebbero indicare una Luna o una Venere in caduta o esilio, oppure lese. Affinché il disagio emotivo prenda questa forma particolare è probabile che debbano, però, subentrare aspetti conflittuali o, al contrario, potenzianti su Urano nella sua valenza pragmatica e come pianeta del lavoro o su Marte come azione. Possibile che, considerata la valenza ossessivo-compulsiva del disturbo, ci possa essere un ruolo importante del segno della Vergine, segno in cui per altro Urano è esaltato, e della casa 6^. A completare il quadro occorre fare attenzione anche ai segni del Leone con la sua ansia di primati e del Capricorno, noto per lo zelo e la freddezza soprattutto quando si tratta di sgobbare.




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