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SATURNO E LA DITTATURA DELLA DISTANZA

a cura di Elena Cartotto
 
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Si nomina spesso di questi tempi il grande giornalista e scrittore Dino Buzzati, genio del surrealismo, del mistero, della solitudine, di quell’umanità al limite inchiodata tra destino e illusioni.  Lo si ricorda per il suo capolavoro “Il deserto dei Tartari” così attuale di questi tempi, ma non bisogna dimenticare l’urgenza, altrettanto significativa e presente, del suo racconto “Sette piani”: sette come Saturno, settimo pianeta della tradizione astrologica a cui Dante, nella sua Divina Commedia, consacra il settimo cielo del Paradiso, quello degli spiriti contemplanti.

Buzzati è in parte un saturnino per l’influsso dell’astro che risplende maestoso, per quanto ciò possa stonare con la natura sobria e malinconica del pianeta, al suo discendente. Incardinato in un grande trigono d’acqua da Mercurio per un verso e dalla congiunzione Giove/Nettuno dall’altro, il Saturno in Pesci di Buzzati è un catalizzatore di sentimenti e memorie del collettivo: dalla 7^ casa osserva, giudica e raccoglie il flusso di parole, pensieri e idee che dalla 3^ e dall’11^ casa si gettano come un fiume in piena sulla sua diga di sabbia che assorbe e nasconde umori e timori alla deriva.

Il Saturno di Buzzati è una spugna che restituisce quel che ha catturato. E sarebbe perfetto se non fosse per quella quadratura di Venere dalla casa 4^ che ancora una volta ricorda a Saturno che non potrà mai anteporre il sentimento alla ragione: che sia la regale e invincibile solitudine de “Il deserto dei Tartari” così ben codificata dalla 12^ casa in Leone di Buzzati, o la discesa ai piani bassi di un anonimo ospedale come narrato nei “Sette piani”, Saturno nel tema di Buzzati, e per sempre nelle simbologie cosmiche, continuerà a divorare i suoi figli.

Giuseppe Corte, protagonista del racconto, pare uno di noi, oggi, ai tempi del coronavirus, di questa pandemia del nuovo millennio che sembra avercele tutte: nasce in un anno bisesto, la cui somma numerologica delle cifre è quattro che fa tanto “quarantena”. Un cielo così non si vede, forse, dai tempi di Hitler con Urano che torna in Toro a dettare i nuovi confini della Terra e dei nostri passi, e la triade dei titani nel Capricorno: Giove, Saturno e Plutone. Pare una danza macabra che, tra paure e divieti, crea le basi per l’instaurarsi di un’impensabile, fino a ieri, dittatura: quella della distanza.

Distanza tra genitori e figli, tra colleghi di lavoro, tra amici e amanti. Distanza tra Paesi, tra enti di governo come Europa, Stati e Regioni, distanze, sempre più incolmabili tra istituzioni e cittadini. Distanze tra conoscenti e sconosciuti, in fila al supermercato, fuori dalle chiese, ad attendere, almeno, la carezza di Dio. Distanze tra medici e pazienti che ti curano sì, ma costretti dentro armature robotiche che proteggono, forse, più dall’umanità che dal contagio. Distanze tra malati, tra quelli che hanno contratto il covid-19 e hanno la precedenza e tutti gli altri che, portatori di altre patologie più o meno gravi, sembrano sparire, dai controlli e dai ricoveri perché potrebbe non esserci posto. Distanze economiche tra i poveri che saranno sempre più poveri e una classe media destinata ad essere anch’essa divorata dal dio della distanza. Distanze tra visioni di vita che invece di trovare accordi tendono sempre di più a polarizzarsi tra presunti torti e fittizie ragioni con un unico tragico assassinio, quello della verità. 

Giuseppe Corte, narra Buzzati, entra in ospedale per un po’ di febbre, per fare qualche accertamento: è ricoverato al 7° piano dove soggiornano quelli di passaggio. Nulla di grave, lo rassicurano: grave sarebbe scendere di piano, perché ciò implicherebbe essere codificati come malati in peggioramento. Di sicuro c’è che al primo piano non bisogna arrivarci, perché nessuno è mai uscito da lì per raccontare cosa gli è successo. Giuseppe Corte è tranquillo, ma giorno dopo giorno, una volta perché deve fare spazio ad un’altra persona nella sua camera, un’altra perché non c’è a disposizione il macchinario per poterlo esaminare, un’altra ancora perché gli viene un eczema meritevole di valutazione, scende. In un surreale incrocio di cause e concause che non hanno nulla a che fare con la sua salute, il povero Corte si sfila dalla sua stessa storia e precipita al primo piano senza nemmeno sapere di cosa sia malato, né se sia davvero malato.

Non si sa se Giuseppe Corte sia un riluttante condannato ad un destino di morte che non vuole accettare o la vittima innocente di una macchina medico-burocratica che ha finito per ucciderlo con l’apparente intento di volerlo salvare: di certo c’è che Saturno, un’altra volta, ha divorato uno dei suoi figli per mantenere inalterato il suo potere. La morte sopravvenuta per mancanza di consapevolezza sembra essere il filo conduttore di una tragedia esistenziale che vede trionfare il tutto sulla parte, il sistema, nella metodica e cieca operatività dei suoi ingranaggi, sul singolo. L’ospedale continuerà ad esistere con i suoi sette piani per l’inferno, Giuseppe Corte, no.

La mera esecuzione di protocolli e procedure può facilmente condurre a quella “banalità del male” così ben narrata da Hanna Arendt sul processo Eichemann, il nazista che si limitò a eseguire ordini, per quanto atroci, non rendendosi conto, nella sua mediocrità umana e di ragionamento, di essere partecipe di un crimine contro l’umanità. In un periodo in cui si parla molto di regole e divieti che vanno a colpire l’essenza stessa della vita dell’uomo nella sua componente sociale e affettiva, è bene ricordare, mimando una frase evangelica, che le regole sono fatte per l’uomo, non l’uomo per le regole.

Sulle regole e i divieti che come Bauman, il geniale teorico della società liquida, ha più volte rilevato, s’impongono con maggiore asprezza dove vengono meno i valori, si gioca l’ultimo fronte di guerra di Saturno per non perdere il potere, quello contro la libertà dei suoi tanti figli ancora oggi sparsi per il mondo. Figli sempre più lontani non solo tra loro, ma anche maggiormente spaccati in se stessi, disconnessi dai loro bisogni più profondi, minati nella loro sicurezza psicologica dal terrore biologico, chiusi tra le voci di dentro e le assordanti distanze del fuori.




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